Quando il cinema è un "Urlo"

Una sala piena di fumo e gente distratta, un uomo in piedi che legge versi e che, parola dopo parola, cattura l’attenzione degli spettatori. Cominciò tutto lì, tra le pareti della Six Gallery di San Francisco, il 7 ottobre 1955, quando Allen Ginsberg, poeta, appassionato di musica e fotografia, recitò per la prima volta in pubblico il suo poema Howl, «Urlo».
Da qualche tempo la ribellione era nell’aria, c’era già stato James Dean con la sua vita maledetta ma ora, attraverso quel fiume di emozioni, tra le righe di quel manifesto poetico, il malessere prendeva corpo, la contestazione trovava il suo inno. Due anni dopo, a New York, il testo di Howl, dedicato dal profeta della beat generation all’amico Carl Solomon, ricoverato in manicomio e accusato di oscenità, diventa corpo del reato, protagonista di uno storico processo che mette una davanti all’altra le due anime dell’America, la voglia di rompere tutto e l’ansia di preservare le regole.
Sulla scena di Howl, diretto dai documentaristi Rob Epstein e Jeffrey Friedman, in gara all’ultima Berlinale e ora in arrivo sui nostri schermi (il 27) con il marchio Fandango, si intrecciano tre piani di racconto. Il primo si snoda nell’aula del tribunale dove l’avvocato della difesa, Jake Ehrlich (John Hamm) e il pubblico ministero, Ralph Mcintosh (David Strathairn) si danno battaglia a colpi di testimoni celebri, intellettuali, professori, studiosi, impegnati ad analizzare l’opera arrivando a conclusioni opposte. Si parla di «test of time», prova del tempo, («Ginsberg riuscirà mai a superarla?», ci si chiede) e si stendono paragoni con Walt Whitman, anche lui aveva fatto delle parole un uso insolito. Tra i banchi siede l’imputato Lawrence Ferlinghetti, proprietario della casa editrice City Lights, accusato di aver pubblicato materiale osceno, mentre al giudice Clayton Horn (Bob Balaban) tocca il compito di pronunciare, nel finale, lo stupefacente verdetto di non colpevolezza. L’intervista al protagonista Allen Ginsberg (James Franco) scorre tra ricordi in bianco e nero che rievocano foto celebri, come quella che lo ritrae con il compagno Peter Orlovsky (Aaron Tveit) e sedute alla macchina da scrivere dove la riflessione sugli avvenimenti, dalla battaglia per l’affermazione dei diritti degli omosessuali all’esperienza divorante della droga, ricostruisce il paesaggio dell’epoca.
La poesia irrompe nella pellicola sotto forma di disegni animati, firmati da Eric Drooker. Si vedono i contorni sinistri dei grattacieli di Manhattan, l’immagine ricorrente di un suicidio, corpi divorati dalle fiamme prima di diventare scheletri blu, esplosioni di luce, spirali che sembrano prigioni, auto in fila sull’orlo di un baratro. La musica, soprattutto jazz, con note di Gershwin e di Burwell, accompagna fughe angosciose e discese negli abissi, rinascite e disperazioni incancellabili, come quella per la madre del poeta, Naomi, morta in manicomio.
Nella storia di Howl, nel suo celebre incipit («Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte da pazzia...») c’è la storia della nascita della controcultura beat, l’anelito alla libertà d’espressione, ma anche la minaccia destabilizzante che incombe sulla società. Una sensazione estremamente contemporanea. Lo dicono i vari film che, in queste stagioni, hanno ricostruito il clima della fine degli Anni Cinquanta, sospeso tra ansie libertarie e rigurgiti conservatori, pronto per il grande salto, ma anche consapevole delle possibili, drammatiche conseguenze. Da Lontano dal Paradiso di Todd Haynes, sulla difficile emancipazione di una casalinga del Connecticut nell’America razzista, a Revolutionary Road con Kate Winslet e Leonardo DiCaprio stritolati dalla contraddizione drammatica tra sogni anticonformisti e equilibri piccolo borghesi. Da An Education, sulla presa di coscienza di una studentessa di Oxford (Carey Mulligan) innamorata del sogno bohèmien, a Milk, vita e opere di Harvey Milk (Sean Penn), l’attivista per i diritti gay assassinato nel ‘78.
Il presagio della violenza è sempre presente, non a caso, in Urlo e Kaddish (Il Saggiatore). Nella prefazione, Furio Colombo scrive che Ginsberg, ai tempi in cui compose le due opere, «sapeva tutto» anche se, tecnicamente, questo era impossibile: «Per esempio non sapeva dell’11 Settembre. Ma lo sapeva nel modo grandioso e impreciso in cui lo sanno i profeti... L’immensamente pericoloso si aggira, come un kamikaze odioso e familiare, in ogni angolo di corpo, di vita, di casa, di pianerottolo, persino durante le vampate di occasionale felicità...».