Lana Del Rey, bella senza (troppa) anima

Qualcuno l'aveva elevata al rango della scomparsa Amy Winehouse o, ancor meglio, della invece più che vivente Tori Amos. Qualcun altro l'ha definita «il miglior prodotto del marketing musicale 2012». Sì, il 2012, era da un anno che aspettavamo Lana Del Rey, la cantante americana da allora sulla bocca di tutti. L'altra sera si è dunque materializzata, bellissima geisha arancione, in un Forum pieno per metà. Ecco, già questo ha subito rappresentato un primo punto dolente dello show: troppo grande il palazzetto d'Assago per le atmosfere soffuse, Anni20, da languida casa d'appuntamenti, tra séparé e poltrone, che la signorina 25enne voleva offrirci.
Diligentemente rappresentato «Born to Die», l'album della consacrazione per intero, la cantante ha poi sfoderato una voce importante, ma ci è sembrata mancare un po' d'anima. Già, è tutto un po' mononota in Lana Del Rey, per dirla alla Elio: una sola espressione, con quel sorriso semiaccenato e quegli occhioni semisgranati; e un solo colore che canti «la mia vagina sa di coca cola» o «siamo nati per morire», per citare due dei suoi passaggi più celebri. Il pubblico, molto fashionabile, molti gay e molte graziose fanciulle, è invero più rumoroso di lei, quando lei gli si rivolge, roteando le mani come vedemmo fare a una certa Mina. Ma, a differenza di Mina (o di Amy o di Tori), dopo un'ora e venti, hai la sensazione di aver partecipato a una performance, di aver visto un'installazione in qualche museo d'arte contemporanea. Bella quanto formale: il soul, l'anima, non abita precisamente da queste parti.
Matteo Cruccu