Se i musei devono veramente imparare da Disneyland

Ambientazione, coinvolgimento, biglietti, merchandising: la cultura può imparare dai parchi a tema?
«Basta musei Disneyland, la scienza è ricerca», ha detto qualche giorno fa Renzo Piano, in un’intervista a Repubblica.it, a proposito del Muse, il Museo delle Scienze di Trento, e della nuova ala dell’Acquario di Genova, entrambi da lui curati. L’architetto si riferiva alla necessità di lasciar esplorare i visitatori e di ridurre l’entertainment che, a suo dire, ha preso eccessivo spazio nelle esposizioni e ha come conseguenza l’appiattimento della proposta culturale rivolta ai visitatori.
La tendenza a spingere fortemente sul tasto dell’edutainment si è effettivamente registrata, anche in Europa, soprattutto nei musei delle scienze. In Olanda il Corpus Museum ospita un corpo umano gigantesco da esplorare, con possibilità di “assistere” a diverse funzioni, dal battito cardiaco alla fecondazione, attraverso un’esperienza simile a quella proposta dai parchi a tema. Nel Museo di Storia Naturale di Copenhagen, i bambini rivivono i tempi antichi fino ai Vichinghi indossando i costumi tradizionali dei loro antenati e costruendo muri di mattoni. Ma gli esempi di interazione maggiore tra musei e parchi a tema si trovano senz’altro negli Usa. Rimanendo tra i musei delle scienze, basti pensare all’Hayden Planetarium nell’American Museum of Natural History di New York: nell’emisfero sopra gli spettatori viene proiettata una storia dell’universo a partire dal Big Bang, con effetti speciali e la voce narrante di Whoopy Goldberg.
Il caso più eclatante è probabilmente l’Abraham Lincoln Presidential Library and Museum di Springfield, nell’Illinois. Lo ha realizzato Bob Rogers, già dipendente della Disney (da cui fu licenziato tre volte) e oggi a capo di una delle più importanti società di realizzazione di spettacoli e attrazioni per parchi a tema, la Brc Imagination Arts, attiva in progetti della Disney, della Universal Studios e dello spazio espositivo della Nasa. In quel museo il confine tra museo e intrattenimento è labilissimo. Accanto a collezioni di oggetti e documenti ufficiali, oltre alla sua libreria personale, ci sono diorami che rappresentano varie fasi della vita del presidente e due spettacoli di intrattenimento con attori:  Lincoln’s Eyes e Ghosts of the Library. Un approccio talmente spostato sull’entertainment da aver sollevato (nonostante il milione di dollari raccolto nei primi tre mesi solo dal negozio di souvenir) moltissime perplessità anche negli Usa. Ma al di là di questo caso estremo, ha ragione Bob Rogers quando dice che i musei hanno tanto da imparare dai parchi a tema, su fronti come la gestione della folla e la capacità di far divertire? 
Ne è convinto Paolo Guenzi, docente di marketing alla Sda Bocconi e autore con Enrico Valdani del libro "Il marketing dei parchi tematici" (Egea, 1998). «Quello dei parchi a tema è un modello di gestione particolarmente complesso – spiega -. Se qualcuno riesce a controllare tutte quelle variabili, a partire da quella del meteo, è in grado di gestire qualsiasi altra attività, a partire dai musei. La mia posizione che non tutto possa essere esportato. Ci sono grandi differenze: ad esempio, i parchi di divertimento prevedono investimenti molto superiori (come esempio, la nuova attrazione “Raptor” di Gardaland è costata da sola 5 milioni di euro, ndr), hanno un target ben più ampio di quello dei musei e prevedono un livello di coinvolgimento maggiore. Detto questo, avere una posizione conservatrice, da parte dei musei, è secondo me sbagliato. In questi anni mi è capitato più volte di partecipare a convegni sul turismo culturale e ogni volta che ho proposto di prendere degli spunti dal mondo dei parchi a tema ho trovato di fronte un muro di diffidenza».
Ancora più sicuro della possibilità di commistione tra cultura e divertimento è Roberto Canovi, direttore responsabile della testata giornalistica online www.parksmania.it, punto di riferimento per il mondo degli “amusement park”. «I musei non solo devono assolutamente imparare – dichiara - ma copiare a piene mani dall’esperienza dei parchi a tema. Ho letto le dichiarazioni di Renzo Piano sul Muse ma sono totalmente in disaccordo: credo che ci sia tutto da imparare dalle strutture americane come Disneyland. Architetti come Piano e Calatrava realizzano creazioni anche bellissime ma che non funzionano quando si parla di fruizione da parte di un numero enorme di persone, come un museo. In questo senso basta confrontare il British Museum, così freddo e noioso, con il museo di storia naturale di New York, che ha attinto tantissimo dai parchi di divertimenti».
Il punto, aggiunge Canovi, è che «i parchi di divertimenti, che per i radical chic sono una subcultura, hanno al loro interno professionalità altissime, dall’architettura al commerciale, alla finanza. Chi è stato in grado, anche in altri settori, di trarre ispirazione ne ha avuto beneficio: penso all’Ikea, che ha abituato il pubblico a non annoiarsi e a godersi il tempo libero e che non a caso è diventato un concorrente dei parchi a tema».
Ma che cosa, in particolare, i musei potrebbero imparare da Disneyland e affini? «I parchi a tema in primo sono molto bravi a tematizzare, a creare una narrazione, sia nelle attrazioni sia nei bookshop e nei ristoranti. In questo i musei hanno molto da attingere», dichiara Guenzi. 
Un secondo punto di forza è la capacità di coinvolgere il pubblico. «Un museo può arrivarci – continua il professore -, per esempio cominciando a gestire la leva del personale. Pensate cosa succederebbe se i dipendenti dei musei invece di stare fermi cominciassero a coinvolgere il pubblico, raccontando dei quadri a pubblici diversi, e magari avessero divise in linea con il tema del museo o con parti del museo».
Per Canovi, i punti di ispirazione per i musei sono almeno tre. Il primo è costituito dall’ambientazione e dalla capacità di creare scenografie: «È chiaro che ricreare un ambiente ha un costo e che ci sono dei limiti da non superare in un museo - sottolinea -. Ma l’esperienza cambia notevolmente: negli acquari fino a un certo punto c’erano solo teche e pannelli esplicativi, oggi ci sono vasche sopra le teste delle persone e vascelli, con un coinvolgimento decisamente superiore».
La seconda leva è quella del food&beverage: «se hai la possibilità di creare un’esperienza anche durante il pranzo o la cena – sottolinea –  ottieni soddisfazione degli ospiti e grandi ritorni, perché la marginalità sul food è la massima in assoluto». Infine c’è il capitolo del merchandising, dove alla Disney sono maestri ma dove anche altri hanno imparato a fare le cose bene, come nell’Europa Park di Rust, in Germania, il secondo maggiore parco nel Vecchio Continente dopo Disneyland Paris.
Altri esempi di gestione avanzata dei parchi di divertimento riguardano i prezzi: in qualche caso (in Italia di recente a Minitalia Leolandia) sono state attivate tariffe dinamiche, come quelle delle compagnie aeree, e in generale si è fatto ampio ricorso ai coupon promozionali di siti come Groupon. «Ci sono limitazioni di carattere normativo – aggiunge Paolo Guenzi –, ma idealmente sarebbe opportuno applicare differenziazioni dei prezzi anche nei musei. Esiste infatti una ciclicità della fruizione, a seconda sia dei mesi sia dei giorni della settimana sia nel corso della giornata. Perché, dunque, non scontare l’ingresso a pranzo, magari provando a recuperare la minore entrata con maggiori consumazioni al ristorante e al bar?». 
C’è poi la gestione delle code. Si va dai virtual queuing system come i "Disney’s FastPass" che monitorano in automatico i tempi di attesa ai sistemi più semplici, che prevedono sovraprezzi per saltare le file, una soluzione, secondo il professore, che un grande museo potrebbe pensare di introdurre. I parchi hanno inoltre maturità nel gestire i gruppi, differenziando i prezzi per i diversi segmenti di mercato. Infine hanno uno sviluppo del merchandising molto curato (basti pensare che tra l’8 e il 15% del fatturato dei parchi deriva dalla vendita di souvenir, ndr). Se sviluppare una mascotte è un percorso lungo e fuori dalla portata della maggior parte dei musei, questi, continua Guenzi, «dovrebbero uscire dalla logica di vendere solo prodotti “artistici” e allargare lo spettro dei prodotti, a seconda della storia che si vuole raccontare».
Esempi in questo senso, aggiunge, sono le magliette personalizzate o le foto scattate durante la visita, entrambi oggetti acquistati d’impulso. Sono dei classici dei parchi a tema che si potrebbero esportare, se non fosse, aggiunge il professore, che «la maggior parte dei musei non ha voglia di raccontare una storia che vada al di là dell’esposizione degli oggetti. La scusa è che non hanno strutture adeguate; il che è vero, ma penso c’entri più l’aspetto delle competenze gestionali, non sempre adeguate. C’è quella stessa chiusura che 20 anni fa si poteva vedere negli stadi, che oggi sono cambiati moltissimo e prevedono un prima e un dopo l’esperienza principale».