UN’INFANZIA CALIFORNIANA – INTERVISTA A JAMES FRANCO

Ieri è stato presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia Palo Alto, il film di Gia Coppola tratto dalla raccolta di racconti In stato di ebbrezza di James Franco. Pubblichiamo la versione integrale di un’intervista di Tiziana Lo Porto uscita sul Venerdì di Repubblica. (Immagine: James Franco in una scena del film.)
A due anni dal suo esordio con la raccolta di racconti Palo Alto Stories (In stato di ebbrezza nell’edizione italiana, minimum fax 2012) James Franco è di nuovo in libreria con un libro semiautobiografico e bello. Si chiama A California Childhood (Insight Editions, $ 29,99), un’infanzia californiana, ed è costruito intorno all’idea e alla pratica della memoria. Il libro comincia come un album di famiglia, con foto dell’infanzia di Franco, dei suoi fratelli Tom e Dave, dei genitori Doug e Betsy, insieme a pagine del diario della madre e poesie. Prosegue con alcuni ritratti in bianco e nero, dipinti e altre poesie che dell’adolescenza raccontano atmosfere, primi amori e sentimento. Finisce con storie sorelle di quelle di In stato di ebbrezza, ambientate ai margini dell’America e abitate da adolescenti impegnati a crescere in una periferia che ogni tanto è solo California, ogni tanto è ovunque nel mondo. E ovunque nel mondo potrebbe essere James Franco adesso, mentre interpreta nuovi colossal, piccoli film indipendenti e serie tv, dirige, preproduce, postproduce altri piccoli film indipendenti, videoclip e spot pubblicitari, va al cinema, si prepara per il suo primo spettacolo a Broadway (Uomini e topi di Steinbeck), legge moltissimo, collabora con alcuni giornali, ha un blog, fa delle interviste, disegna, dipinge, fotografa, è su Instagram, fa collage, crea opere d’arte, espone opere d’arte, suona con la sua band, registra canzoni, pubblica raccolte di racconti e libri d’arte e di poesia, twitta, risponde alle email.
Dove lo trovi il tempo per scrivere?
Studio scrittura al Warren Wilson College. Mi sono diplomato lì in poesia, adesso studio narrativa. Per cui sono costretto a scrivere minimo cinquanta pagine di narrativa al mese. Di solito ne scrivo di più. Le scadenze mi motivano.
Nel tuo nuovo libro scrivi: “diario di mamma 16/7/79 teddy dice: libro”. Sul serio la prima parola della tua vita è stata “libro”?
Vai a sapere se è stata quella o un’altra. Di sicuro c’è che mia madre è una scrittrice per cui dovevano esserci un bel po’ di libri in giro per casa.
Il primo libro che hai amato?
Il coniglietto fuggiasco. E poi, nell’ordine, Il coniglietto di velluto, Vicolo Cannery, Il mago di Oz, Lo Hobbit.
Il preferito di adesso?
Moby Dick. È immenso. Ha dentro così tanto materiale in così tanti stili.
Ricominciamo dalle due parole del titolo del tuo nuovo libro, California e infanzia. La California è stata così importante per la tua formazione?
In parte lo è stata, in parte no. Le storie di A California Childhood le ho scritte tutte più o meno mentre scrivevo la mia prima raccolta di racconti, Palo Alto Stories. Volevo storie che fossero ambientate esattamente lì, ma che al tempo stesso fossero universali. Dopo che è uscito il libro, in tanti mi ha detto che leggere i miei racconti li fa ripensare alle loro adolescenze, anche se è gente che non è cresciuta a Palo Alto e nemmeno in California. Quando si è giovani e si cresce in periferia, c’è tutta una serie di rituali condivisi che prescindono dai luoghi o dalle condizioni economiche del quartiere. Ciò detto, è anche vero che in queste storie la descrizione di certi ambienti della California è fondamentale. Serve a dare colore. Da scrittore devi essere specifico per diventare universale.
Poi, quando si diventa adulti, che ne è dei luoghi?
Restano importanti. La gente e i luoghi hanno una grande influenza su di noi. È con loro che interagiamo quotidianamente. Possiamo pure ribellarci al nostro ambiente, ma anche questa nostra ribellione finisce per influenzarci. In negativo ma ci influenza. Così come ci influenza la cultura pop. Il mondo oggi è estremamente connesso, e gente in posti lontanissimi tra loro finisce per essere influenzata dalle stesse cose.
L’altra parola che hai messo nel titolo è infanzia. Ti manca?
Sì e no. Credo mi piaccia di più col senno del poi. Vissuta in soggettiva mi piace di meno. Da bambino sei innocente, non sai come funziona il mondo. Mi piace meditare sull’infanzia godendomi la conoscenza che l’età adulta m’ha portato. Guardare all’infanzia con gli occhi della maturità.
Il meglio e il peggio dell’infanzia?
Il meglio è che tutto è nuovo. Il peggio è che sei stupido.
Il ricordo peggiore e il migliore della tua d’infanzia.
Era tutto brutto. Col senno di poi è diventato tutto bello.
A seguirti come attore, e artista, e autore, e tutto il resto, si direbbe che la tua vita stia a metà strada tra realtà e finzione.
Sì, perché la mia vita è pubblica. Ed è inevitabile che sia legata a tutto quello che faccio. Prima cercavo di tenere le due cose separate, a un certo punto ho deciso di farle incrociare.
Quanto la finzione è utile nel descrivere la realtà?
La finzione ti permette di mettere a fuoco certi momenti particolari. Ti permette di mostrare il dettaglio delle fantasie che ci circondano. Ti dà le minime e le massime inflessioni di una personalità.
Viceversa, i ricordi quanto sono utili nell’inventare storie?
I ricordi sono la cosa che uso nel mio lavoro. Non che siano necessari, ma di solito parto da qualcosa di reale e poi lo inserisco in un contesto inventato. Recitare è molto simile: per dare a un personaggio una vera vita emotiva devi trovare il mondo di dargli le tue stesse radici, anche se poi in superficie tu e il tuo personaggio siete diversissimi.
Nella linea immaginaria tra realtà e finzione, dove la metteresti la poesia?
La poesia è reale quanto la narrativa, ed è altrettanto immaginaria, solo filtra attraverso prismi di tipo diverso.
Scrivi sempre poesia?
Sì, e moltissima. Ho una raccolta che uscirà ad aprile del 2014. Ma ho già finito quella successiva.
Gia Coppola ha appena finito di girare un lungometraggio dal tuo In stato di ebbrezza. L’hai visto?
Sì, ed è fantastico. Sapevo sin dall’inizio che doveva essere Gia a dirigere il film, anche se sarebbe stato il suo primo lungometraggio. È una giovane artista di talento e volevo che le mie storie venissero mediate dalla sua prospettiva analitica e femminile.