Nymphomaniac è commovente... Ed è un capolavoro

Di Christian Raimo
Una donna giace nel cortile interno di un palazzo, è ferita, mezza morta. Arriva un uomo, decide di portarla in casa, le lascia un letto per riposarsi, le offre un tè. Poi le chiede di raccontargli la sua storia. Lei si chiama Joe, lui si chiama Seligman. Lei è interpretata magnificamente da Charlotte Gainsbourg, lui superbamente da Stellan Skarsgård. Questo è l’inzio di Nymphomaniac , che ovviamente lungi dall’essere tutte quelle puttanate che si scrivono nei titoli dei giornali (“scandalo”, “provocatorio”, pornografico”), è un meraviglioso, tenerissimo, avvolgente, trattato visivo di quattro ore e passa – nella sua versione più breve; cinque e mezzo nella lunga, che uscirò quest’estate – sul desiderio, uno di quei film da mettere nella collana di perle di Lars von Trier insieme a Le onde del destino, Dancer in the dark, Dogville e Melancholia.
Il carattere filosofico, espositivo, in qualche modo “a tesi”, del cinema di von Trier qui utilizza vari dispositivi: la divisione in capitoli (otto) – come era ad esempio per Le onde del destino; la sceneggiatura da dialogo platonico tra Joe e Seligman; gli inserti da video-arte (brevi digressioni semidocumentaristiche su varie figure di archetipi culturali che vengono evocati da Seligman); le sovraimpressioni grafiche, alla Peter Greenaway per capirci…
All’interno di questa struttura narrativa più letteraria che cinematografica ci viene raccontata, come una fiaba al camino, dalle sue stesse labbra la storia di Joe: ninfomane, infelice, donna convinta “di essere una brutta persona” – dall’infanzia a quello che è accaduto nel cortile. Seligman la ascolta, la consola, e ogni volta trae spunto dalle vicende di Joe per metterle in relazione con idee platoniche che hanno a che fare con il desiderio, l’amore, le passioni (in una specie di mappatura randomica e fiabesca, ipercolta e infantile, anche qui, della riflessione occidentale). Lei è una ragazza che è stata a contatto compulsivamente con i corpi; lui è uno studioso che ha vissuto solo e soltanto nel mondo dei libri. Lei è puro Es; lui è puro Superego. Lei non sa interpretare nulla della sua vita vissuta come pura adesione agli impulsi; lui sa solo interpretare, apparentemente onnisciente (sa dell’arte dei nodi, della pesca con la mosca, di arte medievale, di Bach e Fibonacci…). Lei è una drogata di sensi, lui è un tossico di idee. Lei ha scopato migliaia di uomini, ha fatto ruotare tutta la sua esistenza intorno ai propri orgasmi; lui è ascetico e, si scoprirà, vergine.
Come con i ragazzi borghesi che facevano finta di essere degli Idioti, come con la stupida Bess delle Onde del destino che si metteva a scopare in giro per amare e guarire il suo uomo dal coma, da anni incurante dei rischi degli eccessi di esplicitezza – il ridicolo, il grottesco involontario, il ricatto del contenuto, il kitsch… – von Trier fa propria la lezione del suo maestro dichiarato Dreyer (di cui, per dire il fanatismo, indossava un vecchio smoking per commentare le puntate della sua serie tv Europa): fregarsene del realismo, usare un formalismo estremo (telecamera a mano, digitale, recitazione teatrale, tutta la roba Dogma e post-Dogma…) per provare invece a attingere a un piano metafisico alimentando la forza simbolica di personaggi imbelli e storditi, forse pazzi, forse imbecilli: come la Giovanna D’Arco interpretata da Renèe Falconetti o il Johannes di OrdetNymphomaniac tutti i personaggi ci appaiono mezzi stonati, stolidi nella loro visione parzialissima, risibile al limite del caricaturale, del mondo esterno. Come dire, il mondo sensibile chiaramente non basta: “Forse l’unica differenza tra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto, colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte, forse è questo il mio unico peccato”, dichiara Joe all’inizio del suo racconto, facendoci chiedere: è un’esaltata? una sbruffona? Non le crederemmo se il film durasse meno delle quattr’ore e mezza che dura, ma cullati, sedotti dalla sua narrazione, la sua mistica ci appare come una forma di mistica che sembra voler trovare nel sesso non solo una chiave di conoscenza del mondo, ma un possibile passaggio a una dimensione di felicità ultraterrena.
Socialmente inetta, non particolarmente intelligente, l’unica abilità, forse l’unica occupazione di Joe è stata scopare, senza amore, senza relazione: da questo catalogo di atti sessuali e di corpi consumati, ora Joe può passare in rassegna tutte le figure importanti che ha incontrato: un padre amorevole e una madre anaffettiva (una coppia bergmaniano ritratta in un bianco e nero anche qui sul filo dell’effetto parodico), il ragazzo che la sverginò, l’amica con cui mettere in scena giochi erotici, l’amante tenero, l’amante complice, l’amante insistente, due tre capi nei vari lavori che ha fatto, il compagno con cui farà una figlia, una sorta di figlia adolescente che adotterà e che finirà per essere una sua amante, un master con cui costruirà un regolamentato rapporto sadomaso… Quasi tutti questi uomini e queste donne sono chiamati solo con delle iniziali, H o K o L, e anche coloro che sembrano avere avuto nella vita di Joe un’importanza cruciale, come Jerôme (Shia LaBeouf) che è al tempo stesso il suo primo ragazzo, il suo capo e il padre di sua figlia, non paiono aver altra vita che quella di figure simboliche, carte di Propp, facendo dubitare lo spettatore stesso – l’ascoltatore di questa storia – della plausibilità stessa del racconto di Joe. Ma la plausibilità non ci importa (anche quando, come una specie di cameo alla Cassavetes, von Trier inserisce la scena ferocissima, emotivamente pornografica, con la moglie tradita Uma Thurman). La lotta messa in scena attraverso il dialogo tra Joe e Seligman e il racconto della storia sessuale di Joe è quella tra un maschile asessuato e un femminile ipersessuato: sarà mai possibile tra questi due princìpi una qualche forma di relazione?
Sarà possibile una vicinanza che ci sollevi, insieme a Joe, dalla sensazione di abissale solitudine che ci distrugge mentre siamo su questa Terra? Se adesso quest’angoscia non ha le sembianze di un pianeta che sta schiantando proprio contro la Terra come accade in Melancholia (la cui sequenza finale è forse la scena più potente del cinema degli ultimi dieci anni), non per questo è meno profonda. Lo sguardo ottuso di Stacy Martin, la giovane Joe, mentre scopa con chiunque le capiti a tiro, o quello perennemente implorante di Charlotte Gainsbourg, Joe adulta, mentre continua con sempre meno spensieratezza a accumulare incontri sessuali, ci pongono un disperato interrogativo: e se non trovassimo mai, mai, nemmeno in un istante della nostra vita, la sensazione di essere con qualcuno? Per questo è terribile e bellissima (in un bianco e nero cupo, documentaristico) la sequenza dell’agonia del padre di Joe (Christian Slater), l’unica persona per cui forse lei ha nutrito qualcosa di simile a un affetto: in un letto d’ospedale lui urla e si caca addosso, Joe sgomenta lo accarezza e poi va a farsi scopare dal primo infermiere che incontra. È un momento straziante perché la nostalgia di un padre perduto, come istanza salvifica, attraversa tutto il cinema di von Trier e sembra aver a che fare davvero con una richiesta di von Trier stesso, che non ha mai avuto la possibilità di aver un rapporto con il suo padre naturale (la madre gli rivelò solo quando era già grande che il padre con cui era cresciuto non era il suo vero padre e i tentativi di contattarlo sono stati poi abbastanza vani; inol). Sembra che qui, al di là quindi dell’ambizione di fare un film pornografico o un film filosofico di tema sadiano, si riveli la vera potenza interrogativa di Nymphomaniac: un film sul padre perduto. Già nelle Onde del destino il Padre veniva in aiuto di Bess solo alla fine, facendo suonare dal cielo le campane in un miracolo al di là di ogni credibilità anche estetica. Già in Dogville il Padre tornava per ristabilire la giustizia. Questo padre rimpianto in Nymphomaniac si manifesta almeno per lasciare una parola profetica per Joe: dopo averle lasciato l’unica passione che le dà pace, quella per gli alberi (lei conserva dall’infanzia un quaderno in cui ha incollato le foglie e lo sfoglia nei momenti di più acuta disperazione). E se ci fidiamo di questa prospettiva, guardando in modo molto personale, quasi intimo, il cinema di von Trier, ecco che diventa evidente come Nymphomaniac è anche una rilettura delle sue pellicole precedenti, nel tentativo commovente di “correggere” la sua disperazione. Ecco commuovermi alla scena in cui Joe, per andare a farsi picchiare dal master sadomaso (Jamie Bell) che pratica solo nelle ore notturne, lascia da solo suo figlio piccolissimo. La scena ricalca quella iniziale di Antichrist in cui il bambino precipita dal balcone. Anche qui il bambino si alza, scavalca le protezioni del suo lettino: la scena sembra sceneggiata in modo quasi identico, come una auto-citazione, ma ha un esito diverso. La tragedia è evitata per l’intervento provvidenziale del padre Jerôme. Ecco commuovermi ancora, stucchevolmente, di fronte alla scena ripetuta di Joe che cammina nei boschi con il suo padre amato, un quadro archetipico, tanto infantilmente poetico che sembra una preghiera bambinesca, ingenua e naïf.
Ma anche questa volta von Trier ci illude: se questo lunga seduta autoanalitica che è Nymphomaniac (Es e Superego a confronto cercano di dar vita a una relazione possibile), il finale – sorprendente e feroce – ci ferisce ancora più profondamente, lasciandoci con l’unica speranza che questo trauma inesausto darà vita ancora ad altre opere meravigliose, laceranti, come questa.
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