Il nuovo Paolo Nutini contro gli stereotipi del bello e commerciale

Paolo Nutini rischia di rimanere vittima del pregiudizio di certo pubblico (e giornalismo) colto, o pseudo tale, del giovane di bell’aspetto e quindi perfetto per essere un prodotto dell’industria discografica da sacrificare al mercato di certo pubblico più giovane per un successo intenso, breve ed effimero, alla James Blunt, Spice Girls, One Direction (li ho citati così un po’ alla rinfusa).
Beh, nulla di più sbagliato.
Lo si capisce, per esempio, dal modo di pubblicare i propri lavori: tre dischi in sette anni e questo cinque anni dopo il precedente Sunny Side Up, un grande successo commerciale.
In più Nutini è autore delle proprie canzoni, le scrive tutte lui e le canta con una voce molto personale, molto soul, con un timbro che a volte ricorda Rod Stewart, altre Van Morrison.
Persino la scelta del produttore, Dani Castelar, un signor nessuno, è lì a dimostrare l’autonomia di Paolo Nutini nei confronti del mercato discografico che invece ha delle regole precise e tra queste quelle che per fare un disco di successo sia necessario attorniarsi di uno o più produttori alla moda.
Il genere è difficilmente classificabile: il primo disco, These Streets, per me bellissimo, era farcito di un sacco di pezzi perfettamente riusciti come la title track e risentiva della lezione di certo cantautorato inglese, da Cat Stevens e Elton John con una presenza di alcuni toni cari al blue eyed soul, quello di Smokey Robinson o di Sam Cooke, e di alcune sonorità che invece ricordavano Rod Stewart o Van Morrison.
Il secondo disco, Sunny Side Up, è stato un grosso successo commerciale. La principale influenza proviene dal reggae anche se continua a persistere il riferimento al soul e ad atmosfere decisamente vintage.
Quest’ ultimo è più difficilmente classificabile: del tutto abbandonati i facili riferimenti a certa musica più commerciale che forse era quella che attirava il pubblico giovane, gli arrangiamenti diventano, a volte, orchestrali e, ad ogni modo, più complessi, le interpretazioni sono sofferte, segnale forse di un periodo non troppo felice; i riferimenti primi che mi vengono in mente sono quelli di Mike Hucknall dei Simply Red o di Seal, l’ultimo, quello che reinterpreta i classici.
Ma non c’è dubbio che tra le note si possano percepire le atmosfere care a Amy Winehouse, i suoi dubbi e le sue sofferenze, e le manipolazioni sonore di Mark Ronson artefici del ringiovanimento del soul.
Il lavoro ha inizio con Scream (Funky My life up), il singolo, un brano di buona presa. Dal ritmo sincopato, con un bell’arrangiamento di fiati e alcuni richiami alla musica di Sly and the Family Stone o a quella di Prince. Non un pezzo facile, né commerciale; è invece una totale immersione nei suoni anni ’70 senza che traspaia alcuna preoccupazione di come possa suonare ai tempi nostri. Il crescendo alla fine del brano è così liberatori che è impossibile non farsi travolgere dal groove.
Let Me Down Easy è introdotta da una voce femminile raggiunta poi da quella di Nutini, per un brano dall’arrangiamento molto cinematografico, vicino ad alcune cose già ascoltate in questi ultimi mesi (Sharon Jones in particolare). Quello che fa la differenza, rispetto a queste ultime, è l’interpretazione di Nutini da consumato crooner.
One Day è un po’ sulla falsariga del brano precedente, anche se il refrain rende il brano più ampio e l’arrangiamento orchestrale richiamano alla mente alcuni dei suoni di Sam Cooke.
Il cambio di registro giunge con Numpty, il brano più vicino alle precedenti esperienze discografiche: una canzone basata sull’uso del piano elettrico, cantata come se il testo fosse uno scioglilingua e con un arrangiamento di fiati assai riuscito. Carina, allegra, sbilenca e trascinante.
Superfly è uno scherzo di circa 90 secondi: il titolo è quello di un vecchio successo degli anni 70 di Curtis Mayfield, il groove è di quei paraggi lì.
Better Man è una ballata che ricorda molto da vicino alcuni contenuti del primo album. L’interpretazione e sorniona, un po’ ruffiana, il brano stenta all’inizio a decollare, ma poi verso la fine interviene un coro accoppiato con una chiatta solista, l’interpretazione diventa più sofferta, sembra di sentire il grande Otis Redding. E il brano diventa un capolavoro assoluto da riascoltare all’infinito.
Iron Sky è introdotta da piano e percussioni e da una voce forte, decisa, che scandisce il testo che contiene una citazione del discorso finale di Charlie Chaplin ne Il grande Dittatore. Il brano, all’inizio, di per sé non ha elementi di particolare attrazione ma vive di un’interpretazione di quelle che ti lasciano stupefatto tanto sono sofferte. Poi però l’arrangiamento si apre, interviene l’orchestra, e l’interpretazione cresce ancora di livello, fino a quando in secondo piano una voce femminile confeziona un accompagnamento perfetto. Il crescendo finale è di quelli che si fatica a dimenticare. Altro brano stellare...
Diana è un pezzo strano, sbilenco, minimalista fondato inizialmente sul fraseggio tra piano elettrico e percussione. Più forma che sostanza almeno sino a quando interviene la tromba e la canzone acquista spessore, profondità. Anche qui numerosi sono i richiami ad alcuni grandi interpreti degli anni 70 come Howard Tate.
Un tocco di modernità è fornito dalla presenza di Janelle Monàe in Fashion, un brano sospeso tra il passato e il futuro, tra inserti rappati e arrangiamenti che richiamano da vicino quelli storici della Stax. Il brano, seppure un po’ avulso dal resto, regge il confronto e alla fine risulta assai gradevole.
Atmosfere più intime sono quelle di Looking for Something, una ballata sospesa, basata tutta su una bella interpretazione e su un arrangiamento arricchito dalla presenza di violini. Bello e di effetto il tutto. E con un crescendo finale ancora meritevole di gran nota.
Cherry Blossom è decisamente gradevole. Dopo un inizio sottotono, il brano parte deciso con una bella chitarra in primo piano, un suono generale bello e preciso. Diverso forse da tutto quello che si è ascoltato prima ma non per questo meno gradevole. La sensazione è che diventerà uno dei brani più incisivi nelle esibizioni live.
Chiude il lavoro Someone Like You, un brano acustico con alcuni precisi riferimenti (il giro di basso è quello di Sitting on the Dock of the Bay), mentre la melodia quello di un pezzo giamaicano che prima o poi mi verrà in mente…. Comunque bello, con un coro black assai piacevole.
Bello tutto. Caustic Love è un lavoro serio e maturo. Non so se venderà tanto o poco e francamente la questione non mi preoccupa né credo, cosa più importante, preoccupi Paolo Nutini che ha fatto il disco che voleva fare, fregandosene delle regole.
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