Ecco come sarà la musica di domani. Giorgio Moroder al Wired Next Fest

Dopo tre Oscar, è ritornato alla grande con Daft Punk e Coldplay. Wired lo mette in copertina e lo porta sul palco del Next Fest
Le dispiace se, mentre chiacchieriamo, accendo il computer e lavoro un po’?”. Giorgio Moroder (quello che nel disco dei Daft Punk dice la battuta ormai leggendaria “My name is Giovanni Giorgio but everybody calls me Giorgio”) è nello studio di casa sua, al 21esimo piano di un lussuoso condo di Beverly Hills. È una stanza spoglia, giusto un poster e una postazione di lavoro: grande monitor, grande pc, una tastiera musicale e altri macchinari. Una finestra incornicia uno scorcio di Hollywood Hills. Dagli altoparlanti esce una musica familiare che Moroder inizia a manomettere muovendo molto lentamente il mouse. Il pezzo è Midnight dei Coldplay (in uscita il 19 maggio). “Mi hanno chiesto un remix e devo consegnarlo entro il weekend”, mi dice come se si trattasse di una pila di pratiche da sbrigare. “Lo allungherò un bel po’ e ci metterò dentro anche una melodia mia. Spero che gli piaccia”.
Sarà per il suo italiano (correttissimo e solo impercettibilmente arrugginito) e il suo accento ladino (è nato nel 1940 a Ortisei) ma Moroder, quando parla del suo lavoro, sembra un nobile artigiano che tornisce il legno più che il visionario che ha rivoluzionato la musica popolare come la conosciamo. Fa fatica a definirsi artista: “Ho sempre fatto il musicista e il produttore”, mi dice. “Solo ora che faccio il dj, ho iniziato circa un anno fa, esco là fuori, vedo la gente che urla e mi sembra di essere Michael Jackson: sono sempre stato abituato a vivere dietro le quinte, a lavorare per artisti di cui ammiravo il talento”. Eppure canzoni come Call Me dei Blondie, I Feel Love e Hot Stuff di Donna Summer, Flashdance (What a Feeling) di Irene Cara portano la sua firma inconfondibile, un suono che è sopravvissuto al tempo e agli artisti stessi che lo interpretavano, un’onda che ha attraversato i continenti influenzando artisti bianchi, neri e asiatici. Moroder ha creato una specie di lingua franca della pop-dance che ha scavalcato i decenni e le mode. Se nel 1977 non ci fosse stata la disco elettronica di I Feel Love, sposata con la vocalità soul e gospel di Donna Summer, difficilmente Calvin Harris avrebbe confezionato We Found Love per Rihanna. Forse Goldfrapp suonerebbe come i Muse e Madonna farebbe un altro mestiere. E la via verso l’electro e il cut & paste dell’hip hop sarebbe stata molto più accidentata e involuta.
Quando a Moroder dico che I Feel Love è stato un ponte tra due culture, l’elettronica europea e bianca e il soul e la disco dei neri, lui appare perplesso. “Mentre lo facevo certo non pensavo di fare una rivoluzione. Volevo avere un pezzo disco di successo e io e Donna lo abbiamo avuto. Ero cosciente della difficoltà tecnica: sapevo che ero il primo che usava l’elettronica per fare un disco pop. Sapevo che quello che facevo era molto diverso, nelle intenzioni, da quello che facevano i Kraftwerk, ma la cosa si fermava lì: volevamo una buona canzone da ballare che fosse funzionale al concept album su cui stavamo lavorando”.
L’album era I Remember Yesterday e l’idea era quella di affrancare Donna Summer dall’immagine di sexy diva della disco (l’anno prima, in I Love To Love You Baby, la cantante ansimava per 17 minuti per un totale, secondo la Bbc, di 23 orgasmi). Qui Donna Summer canta pezzi ispirati agli anni ’20, agli anni ’50 e agli anni ’60, fino ad arrivare al futuro, che nella testa di Moroder aveva il suono incessante e circolare di un Moog Synthesizer. “Una macchina di una complicazione infernale. Servivano ore per ottenere quello che volevamo e avevo sempre bisogno di tecnici e musicisti che mi dessero una mano”. Anche la melodia, di solito la prima cosa a cui un compositore disco pensa, è arrivata dopo: Giorgio ha studiato prima una linea di basso e di percussioni e su quella ha costruito tutto il resto.
“L’unica rivoluzione di cui mi sono accorto è stata quella dei club gay. Ancora oggi, ricordando quel brano, mi dicono che I Feel Love è stata la colonna sonora dei movimenti di liberazione gay e che molti omosessuali si sono sentiti liberati grazie a quella canzone. E questa è una bella cosa”.
Quello di immaginare il suono del futuro è rimasto un pallino di Moroder. Quando nel 1979 si è messo a lavorare sul suo album E=MC2, ha deciso che sarebbe stato il primo album pop interamente registrato in digitale. “Avevo capito, dopo aver partecipato a una fiera dell’hi-fi a Los Angeles, che quello sarebbe stato il modo in cui tutti avremmo registrato la musica”. Il problema era la memoria: non esistevano ancora computer così potenti per processare insieme tutti i suoni che aveva in mente. “Avevamo 30mila pezzettini spalmati su diversi computer: ci è voluta una settimana solo per preparare le macchine e altri cinque giorni per sincronizzare tutto. Ulteriore lavoro lo abbiamo fatto a Salt Lake City dove c’era questo professore esperto di computer che ci dava una mano quando ci inceppavamo. È stato un bel rischio: l’unico mio rimpianto su quell’album è stato di essermi concentrato così tanto sull’aspetto tecnico e troppo poco sulla musica”.
Che effetto fa a Giorgio Moroder vedere che tutte le macchine su cui lavorava negli anni ’70 e ’80 oggi entrano in un telefonino? “Be’, è bellissimo. L’altro giorno mi è venuto a trovare David Guetta e vedevo che faceva tutto sul suo laptop. Ora io ho ancora questo computer (indica il tower sopra il tavolo) perché ci sono affezionato ma presto mi comprerò anch’io il mio laptop. E poi passeremo direttamente ai tablet: c’è già gente che fa arte con l’iPad e sono sicuro che presto anche le tastiere per fare musica spariranno del tutto. La cosa che mi colpisce ogni giorno è la comodità e sicuramente io non potrei mai tornare indietro”.
Giorgio ha visto nascere e morire tecnologie e formati. Ha vissuto la rivoluzione del cd (“Aveva un suono spettacolare: la gente che sentiva le cassette non poteva credere a quanto fosse meglio”), ha visto tramontare il vinile e lo ha visto tornare (“Anche se credo che quella del vinile sia ancora una nicchia troppo piccola“). Ma forse non sa che la sua sigla dei Mondiali del 1990 (Un’estate italiana cantata da Gianna Nannini e Edoardo Bennato) è stato l’ultimo 45 giri di grande successo della discografia italiana. Dopo quel titolo, il vecchio 7 pollici con due canzoni è un format che è andato tristemente estinguendosi. “Vuole dire che ho ucciso il 45 giri in Italia?”. Per carità, dico io, forse è stato l’ultimo a capirlo. “Gianna e Edoardo hanno scritto le parole e hanno cantato: di quella session a Milano ricordo musicisti eccezionali, tra i migliori con cui abbia lavorato”.
E Moroder ha davvero avuto a che fare con i migliori del mondo. Basta guardare i corridoi della sua casa: dischi d’oro e di platino: Diana Ross, Barbra Streisand, Cher, Blondie, David Bowie. E Freddie Mercury in quell’altro esercizio di spericolato retrofuturismo che era la colonna sonora del classico del cinema muto Metropolis (1984).
Affiora un ricordo insolito. “Sì, lo strano incontro con Bob Dylan. Sylvester Stallone voleva che lui cantasse il tema finale di Rambo, credo il numero 3. E allora sono stato a casa sua a Malibu e gli ho proposto un pezzo: a lui è piaciuto e lo ha cantato. Poi qualche giorno dopo mi ha chiamato e mi ha detto che non se ne sarebbe fatto più niente. Forse non gli piaceva la canzone ma più probabilmente ha capito che forse non era il film giusto per lui. E pensare che Sylvester insisteva tanto per avere proprio lui”.
È naturale finire per parlare di Michael Jackson. “Lui aveva in mente di fare il remake di un film degli anni ’60, The 7 Faces of Dr Lao. Abbiamo fatto cinque o sei canzoni e andava tutto bene anche se molto lentamente. Finché non è saltato fuori lo scandalo degli abusi sul bambino e si è bloccato tutto: nessuno ha voluto più metterci i soldi”. Quindi le canzoni esistono da qualche parte… “Sono dei demo fatti per lui. Ci abbiamo lavorato per due anni e mezzo. Lavorare con Michael era difficilissimo: per incontrarlo ci mettevi una settimana: è un vero peccato che sia andata così”.
Ma oggi Giorgio Moroder come immaginerebbe il sound del futuro? “È proprio quello che sto cercando di fare con il materiale nuovo su cui sto lavorando (sta incidendo con Sia, Kelis e Avicii). La mia impressione è che bisogna ricominciare a lavorare sulle canzoni: oggi una canzone di successo sembra fatta di tante parti staccate. È il risultato di tanta gente diversa che lavora da sola e poi ricuce tutto insieme. Manca una continuità. La vera sfida è ritrovare un equilibrio tra canzone-canzone, strumenti analogici e digitale. Per esempio mi piace Avicii: Wake Me Up è un pezzo che rappresenta questa idea”.
Mentre Giorgio si prepara per uscire, ci aspetta il set fotografico per questo servizio, rimango a chiacchierare con la moglie Francisca. È una bella donna di origine messicana con una cascata di capelli ricci sulle spalle. Alle pareti ci sono diversi quadri dipinti da Moroder. C’è un dipinto astratto con una specie di onda blu su fondo bianco e un tubo al neon “che purtroppo non funziona più”. E c’è un grande ritratto di Donna Summer che domina il tavolo da pranzo.
Donna abitava qui sotto, in questo condominio”, mi racconta Francisca. “Ha tenuto nascosta a tutti la sua malattia (la cantante è scomparsa due anni fa), non voleva che si sapesse. Io ho capito che qualcosa non andava quando le ho chiesto di cantare per i 70 anni di Giorgio e lei mi ha detto di no. Volevo che cantasse Take My Breath Away (il tema di Top Gun). Giorgio è ancora in contatto con Bruce, suo marito, si vedono spesso. Per noi è stata una perdita molto triste“.
Uscendo da casa Moroder noto in una mensola una statuina di legno, una figura femminile inginocchiata, un pezzo di artigianato della Val Gardena. È minuscola e rischi di non vederla in mezzo agli Oscar, ai Golden Globe e ai Grammy che affollano la casa. E proprio accanto alla porta, incorniciato, un diploma firmato Carlo Azeglio Ciampi, per Giorgio Moroder, commendatore della Repubblica Italiana.
http://www.wired.it/play/musica/2014/05/08/re-mixing-moroder/