Meryl per sempre. A dispetto dell'età

È forse la più grande attrice di oggi. Straordinaria in ogni ruolo perché capace di identificazione totale col personaggio. Perfezionista come De Niro, capace di imparare il polacco o di suonare il violino. E ora l’omaggio dei Cahiers du Cinéma
Basta il suo nome e siti e gazzette si scatenano: “Meryl Streep a Cannes” e giù foto. Anche se a onor del vero in “The homesman” di Tommy Lee Jones, in concorso al prossimo festival, la protagonista non sarà lei ma Hilary Swank, più giovane e più bella. La Streep non è neanche terza nel cast, appare un secondo nel trailer con ruolo che forse non giustificherà il suo arrivo sulla Croisette né la “montée de marches”. Poco importa. È lei la star. E più passano gli anni, più diventa star. Rovesciando la feroce legge del cinema che ancora oggi fa dire ai produttori: «Sullo schermo una donna di 45 anni è come ne avesse 72».
Ma il talento non invecchia. E il suo è talmente ipertrofico da giustificare tesi di laurea e studi analitici persino da parte di cinefili puristi come i “Cahiers du Cinéma”: che hanno appena prodotto un volume apposito, “Meryl Streep-Anatomy of an Actor”, edizioni Phaidon. Duecento pagine firmate da Karina Longworth, studiosa californiana, applicata come un biologo ad analizzare il comportamento di questa creatura eccezionale nell’universo hollywoodiano.
L’anatomia comincia con il primo grande personaggio cui Meryl Streep diede vita all’inizio della sua formidabile carriera: Meryl Streep. La scolpì dal corpo goffo di una ragazzina con occhiali spessi e capelli crespi, nata nel 1949 a Summit e cresciuta nel New Jersey in una famiglia medioborghese di origini olandesi, che nulla aveva a che fare con spettacolo e affini. Una di quelle adolescenti bruttine che tra i banchi di scuola soffrono le pene dell’inferno. Amica troppo goffa per piacere alle ragazze, compagna troppo priva di sex appeal per attrarre ragazzi, Mary Louise aveva però due punti di forza: la straordinaria voce da soprano, che spiccava nel coro scolastico, e l’orecchio musicale, che le permetteva di imitare le voci degli altri.
Una base da cui partire per sognare una carriera nel musical. Lei gli aggiunse disciplina, forza di carattere, lezioni di canto e recitazione, più un buon taglio di capelli schiariti e lisciati senza pietà. E a metà anni Sessanta Mary Louise Streep era già Meryl (come da affettuoso soprannome della mamma).
Qui potrebbe cominciare una “vie en rose” di successi, grandi film, premi, red carpet, fans, applausi. Quelli che han fatto di lei l’attrice dei record: 18 nomination (la prima per “Il cacciatore”, l’ultima per “I segreti di Osage County”), tre Oscar (“Kramer contro Kramer” ,“La scelta di Sophie”, “ The Iron Lady”), due Emmys, vari Bafta e Golden Globe, un incalcolabile numero di premi ovunque nel mondo, David di Donatello compresi. Ma non andò esattamente così. Sotto il microscopio del libro dei Cahiers, la vita professionale di questo mostro sacro del cinema americano si rivela complessa. Meryl è stata molto meno amata di quel che si crede.
La categoria “Donna non bella, ma interessante” ad Hollywood non esiste. O perlomeno: non esisteva prima della sua consacrazione. Lei se ne rese conto al primo casting: il remake di “King Kong”. Ad esaminarla è lo stesso produttore Dino De Laurentiis che la guarda, le sorride con gentilezza, ma intanto dice in italiano al figlio: «Ma questa è proprio brutta, che me l’hai portata a fare?». Ci son brutte che studiano le lingue. E Meryl si prese almeno la soddisfazione di rispondere in italiano: «Mi dispiace molto di non essere bella come pretendono i suoi parametri».
Non fu solo una frustrazione da principiante a inizio carriera. Le fu assai difficile conquistare anche il ruolo di Karen Blixen in “La mia Africa”. Le major non volevano rischiare il budget milionario di un blockbuster come quello mettendo una brava ma bruttina Streep accanto a un sex symbol come Robert Redford. Lei voleva assolutamente quella parte, tanto da arrivare al provino strizzata in bustino e push-up. «Me ne vergogno ancora», ha detto: «purtroppo ha funzionato».
Nei primi anni Novanta la colpa di non essere abbastanza “femmina” per le aspettative dei produttori torna immutata: per il ruolo di “Evita” le viene preferita Madonna. Eppure all’epoca la Streep era ormai una superstar: già strapremiata e con cachet di 4 milioni di dollari a film - non il top per un collega maschio ma uno sproposito per un’attrice donna. Brava, bravissima, ma non abbastanza sexy per essere un’Evita credibile. Per di più, scrisse sul “Sunday Star” il non benevolo critico Mike Hammer, «sarà anche la più grande attrice della sua generazione ma il pubblico resta a casa» . 
Non fu l’unica stroncatura della carriera. La recensione che per sua stessa ammissione l’ha fatta più soffrire fu scritta da una donna. Si chiamava Pauline Kael e sul “New Yorker” bocciò “La scelta di Sophie” come un brutto film involontariamente horror e lei come un’attrice talmente tecnica «che invece di liberare il personaggio di fronte alla macchina da presa si concentra sul controllo di quel che viene filmato».
È la scuola della sua generazione. I De Niro, gli Al Pacino, i Dustin Hoffman. Attori meravigliosi ma meticolosi, perfezionisti fino all’ossessione, capaci all’occorrenza di dimagrire, ingrassare, studiare uno strumento musicale o una nuova lingua solo per dare all’inglese l’accento credibile di uno straniero. Lei, ad esempio, per assumere le vesti di Sophie Zawistowska imparò il polacco; per “La musica nel cuore” si allenò al violino sei ore al giorno per otto settimane; per Johanna Kramer passò pomeriggi interi in giro per Manhattan ad osservare madri con bambini nei supermercati, per strada, ai giardinetti, sugli autobus. «Sono creature di una calma soffocante. Donne sole, incapaci persino di avere sogni. Non sono felici e non sanno neanche perché», fu la sua conclusione.
Ad insegnarle questo metodo da entomologo fu la Yale Drama School, cui si iscrisse nel 1971, appena laureata. Era allora diretta dal mitico Robert Lewis,l’uomo che rinnovò il metodo Stanislavskij e Strasberg modificando profondamente tutto il teatro americano. Il suo insegnamento si basava sulla totale identificazione con il personaggio. Ricerca maniacale delle motivazioni sentimentali e inconsce. Sacrifici che giungevano alla metamorfosi fisica pur di entrare nella parte. Il tutto in un clima di estrema competizione nella classe, che portò Meryl ai limiti del crollo e al bisogno di aiuto psicologico per continuare a frequentare la scuola. Viene da qui quella “pluripersonalità” che le permette di passare dal ruolo di moglie lesbica (“Manhattan”) a sopravvissuta all’Olocausto (“ La scelta di Sophie”), da operaia politicizzata (“Silkwood”) a scrittrice danese nella savana (“La mia Africa”), fino alla Miranda Priestly ricalcata da Anna Wintour nel “Diavolo veste Prada”, girato quasi contemporaneamente all’ultimo Altman, “Radio America”: una Nashville country in via di sparizione, dove Meryl cantante al tramonto è l’altra faccia dell’America: quella sovrappeso con il banjo in mano, tutta gonnellone di cotone e camicette svolazzanti. «Signora Streep», le domandavano nel 2006 i giornalisti, « tra il country di Altman e la New York di Miranda Priestley qual è la sua America?». E lei, criptica: «ho un casa in campagna e una a New York. Le amo tutte e due».
Di più, sulla sua vita privata, difficile sapere. Dopo la morte di John Cazale, suo primo compagno con cui girò “Il Cacciatore” , nel ’78 sposò lo scultore Don Gummer, da cui ebbe 4 figli: un maschio e tre femmine. Punto: le cronache rosa si fermano qui. Con la stessa meticolosa attenzione che ha applicato alla carriera, la più grande attrice americana ha blindato la vita privata.
Tutta casa e bottega. Anzi campagna, dove si ritira con l’intera famiglia. «Non è facile vivere a New York quando la mia faccia è dappertutto. Le edicole mi fanno star male. Voglio dare serenità ai miei figli».
Non bella, schiva, monogamica, campagnola, insofferente a feste e media… non c’è una delle regole per il successo a Hollywood che Meryl non abbia infranto. La sua fortuna, secondo la biografa dei Cahiers, è stata anche di nascere e crescere nel momento giusto: nell’America degli anni Settanta. Quella dei movimenti pacifisti e femministi, del rovesciamento dei ruoli, delle donne che cominciano uscire dagli stereotipi. Insomma quella di Linda del “Cacciatore” che subisce i danni di una guerra decisa dagli uomini; di Johanna Kramer che abbandona il figlio perché sa che se non trova se stessa non può essere una buona madre; della militante sindacale Silkwood che combatte in fabbrica la sua guerra giusta per il diritto alla salute. E così via, verso una declinazione di vite e di caratteri che incontrano la joie de vivre di Julia (“Julie & Julia”, diretto da Nora Ephron nel 2009) come il peso del potere dell’“Iron Lady”o il prezzo della carriera in Miranda.
Ha ragione Molly Haskell, femminista storica e firma del “Village Voice”: «Nessuno dei personaggi costruiti da Meryl Streep è propriamente femminista, ma tutte sono incarnazioni di esperienze complesse tipiche degli ultimi trent’anni. Donne che hanno ridefinito se stesse nella cornice di quei grandi cambiamenti che il movimento ha comunque prodotto nella nostra storia». A cominciare da lei. Dalla sua personale vittoria su Hollywood che la consacra ora e sempre come una delle più grandi interpreti di tutti i tempi. A dispetto dell’età, del peso forma o del naso troppo lungo. Lei lo sa: «È stato uno choc scoprire che Bette Davis aveva solo 40 anni quando ha girato
“Eva contro Eva” nel ruolo di un’attrice finita, ormai rottamata. E ne aveva 50 in “Baby Jane”, che l’aveva trasformata in vecchia strega. I tempi, almeno in questo, sono cambiati. Forse non per tutti, ma di certo per me». Come darle torto?  
http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2014/05/05/news/meryl-per-sempre-a-dispetto-del-eta-1.163664