Steve Reich: "Il rock mi ha derubato e io mi vendico, nel nuovo disco mi ispiro ai Radiohead"

Il grande compositore americano riceverà il Leone d'Oro alla carriera il 21 settembre alla Biennale Musica: "Ma il premio è davvero d'oro?"
"Niente nel mondo va per il verso giusto, ma fingiamo che non sia così e continuiamo a raccontarci che tutto è ok", mormora l'uomo che ha cambiato il corso della musica mentre legge su un quotidiano di un sanguinoso attacco a Gaza.
Steve Reich, maestro del minimalismo e della musica seriale, un pioniere insieme a La Monte Young, Terry Riley e Philip Glass, parla in fretta, come per raccontare nel tempo di un'intervista l'enormità e la complessità dei suoi progetti, gli incontri con i maestri del be-bop, con Darius Milhaud e Luciano Berio, le scoperte delle affinità esistenti tra le sue geometrie e alcune tecniche musicali balinesi, il viaggio in Ghana, i Grammy e i Pulitzer e una inaspettata liaison con i Radiohead.
Compie 78 anni il 3 ottobre, è dinamico e in forma come quando, adolescente, scoprì le meraviglie di Bach e Stravinsky. "Non ho segreti. Se ti immergi in quel che ami fare  -  e riesci a farlo  -  accresci in maniera esponenziale la tua energia mentale. Per il resto pratico una semplice forma di meditazione; per venti minuti al giorno ripeto Yhwh Shalom".
Il 21 settembre il 58esimo Festival internazionale di Musica contemporanea della Biennale di Venezia gli conferirà il Leone d'oro alla carriera, un riconoscimento che in passato è andato a Goffredo Petrassi, Luciano Berio e Pierre Boulez. 
"L'ultima volta che sono stato a Venezia fu nel 1976 per un'esecuzione di Music for 1-8 Musicians e adesso ricevere un premio che io associavo all'universo cinematografico non è solo un onore ma una grande sorpresa - com- menta - Mi dica, ma il Leone è davvero d'oro?". 
A Venezia eseguirà tra l'altro City life ( 1995), un'opera ispirata dal caos sonoro di New York, la metropoli che ha cullato la sua arte. "La scrissi quando vivevo a Lower Manhattan. Feci una selezione di suoni che mi disturbavano. È sempre uno stimolo esterno, anche non piacevole, che ti spinge a fare qualcosa d'inedito  -  in quel caso la ricerca di strumenti che potessero riprodurre più o meno fedelmente il suono di una frenata stridente o del clacson di una Porsche. È una lezione che ho appreso da Luciano Berio. Aveva insegnato anche a sua moglie, il soprano Cathy Berberian, a fare lo stesso con la voce umana".
Lei è un'icona per i musicisti d'avanguardia ma anche per molti art-rocker.
" Music for 1-8 Musicians ( 1978) è una composizione che è stata scippata dal rock. Non me ne sono mai fatto un cruccio, ma ora mi vendico. Il nuovo disco, che esce a settembre, si chiama Radio Rewrite , ed è ispirato da due canzoni dei Radiohead ( Jigsaw falling into place e Everything in its right place ). Ci suona anche Jonny Greenwood, il chitarrista della band".
Lei ha flirtato molto raramente con il rock.
"Decisamente più col jazz. A quattordici anni andavo pazzo per il be-bop, Miles Davis, Kenny Clarke e Charlie Parker soprattutto. Poi all'epoca della Juilliard, quando studiavo con Berio, fui rapito da John Coltrane, che musicalmente e spiritualmente ha avuto un impatto enorme su di me. Nel 1973, durante una performance alla Queen Elizabeth Hall di Londra, conobbi Brian Eno, capelli lunghi, fard, rossetto e unghie laccate (l'epoca dei Roxy Music, ndr). Era venuto ad ascoltarmi come io andavo ad ascoltare Davis. Dentro di me pensai: giustizia è fatta!".
Com'è è cresciuto musicalmente?
"Niente rock and roll  -  mai ascoltato prima dei Beatles. La musica che mise in moto tutto fu La sagra della primavera di Stravinsky. Da ragazzino non avevo mai ascoltato nessuna musica post-Wagner e nessuna musica pre-Haydn. Quindi può immaginare l'effetto che Stravinsky e Bach ebbero su di me. Poi sono arrivati altri amori: Bartók, ad esempio, con Mikrokosmos . Quanto al rock, non l'ho mai preso sul serio prima di Sgt. Pepper ".
Quanto sono stati tormentati i suoi rapporti con il mondo accademico?
"Non più di tanto. Ho avuto la fortuna di avere insegnanti di grandi apertura mentale come il grande Vincent Persichetti. Poi con Berio gli orizzonti si sono allargati da Monteverdi a Coltrane. Non ho mai scritto musica per fare scandalo, solo una volta alla Carnegie Hall successe un pandemonio quando Michael Tilson Thomas inserì Four Organs nel programma insieme a Mozart e Liszt".
Nell'opera The Cave (1993) ha indagato le origini delle tre religioni monoteistiche, quasi presagisse i dissidi che oggi tormentano il mondo.
"All'epoca se qualcuno mi avesse detto che il fondamentalismo religioso sarebbe culminato nel 2001 con l'attacco alle Torri gli avrei riso in faccia. Invece siamo in una guerra di religioni, anche se i politici non la chiamano così".
Lo considera un imbarbarimento della civiltà?
"No. Negli anni Sessanta siamo cresciuti con l'illusione di essere diventati migliori. L'anelito religioso è insito nella natura umana e a volte si manifesta in maniera distorta, violenta  -  come la scienza d'altronde. Noi, cresciuti in un ambiente liberale, pensavamo di essere immuni da tutto questo. Più tardi ho trovato molto gratificante e di grande aiuto esplorare le radici del giudaismo. Mi ha aiutato a comprendere me stesso e quel che sta accadendo nel mondo".
Lei dice: "Viviamo in un'epoca in cui la finestra tra la strada e la sala da concerto è aperta, e questa è la normalità". Vuol dire che il gap tra la musica popolare e quella colta è superato?
"No, per carità! Il gap esiste ed è giusto che esista. Scrivere una bella canzone pop è una bella soddisfazione, abbiamo avuto geni come Gershwin e Paul McCartney capaci di creare una sintesi mirabile tra i generi, ma quello che lei chiama gap esisteva anche nel Medioevo e nel Rinascimento. Tutti i grandi compositori si sono ispirati alla musica popolare e/o religiosa dai tempi di Palestrina. Possono influenzarsi a vicenda  -  vedi Haydn, Bartók, Stravinsky, Charles Ives o Kurt Weill. Quella finestra  -  che era sbarrata quando io esordii - si apre e si chiude a seconda dei tempi. Ma è bene che resti spalancata".
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