JANE BIRKIN: «VOGLIO VINCERE LA PAURA»

Quando Jane Birkin mi viene incontro in un antico caffè di Roma, magrissima e leggera, con un sorriso triste sul viso senza trucco, dimentico l’inglesina trasgressiva che negli Anni 70 dava scandalo in coppia con il musicista maledetto Serge Gainsbourg cantando il brano Je t’aime moi non plus, tutto gemiti e allusioni sessuali. Non rivedo nemmeno la musa (spesso nuda) dei grandi registi né l’icona 
di stile che ha battezzato una celebre borsa sogno di Hermès con il suo nome. E tanto meno la mamma delle due star Charlotte Gainsbourg e Lou Doillon. La donna che ho davanti è una madre sopravvissuta alla propria figlia. Kate Barry, fotografa, nata dal primo matrimonio dell’attrice con il compositore John Barry, l’anno scorso è morta a 46 anni precipitando da una finestra del suo appartamento parigino. 
Era un’anima tormentata e tutti hanno pensato al suicidio. Non chiedo a Jane la conferma, ormai conta poco. «Mia figlia non c’è più da undici mesi e ancora non mi do pace», mi dice Birkin. «Quando è morta ho smesso 
di lavorare e ho continuato a girare a vuoto. Ora torno in scena, ma ho ancora paura del futuro».
Jane è nel pieno delle prove dello spettacolo teatrale Gainsbourg, poète majeur (“Gainsbourg, poeta maggiore”) in cui, insieme all’attore Michel Piccoli, legge i testi dell’ex compagno scomparso nel 1991. Dopo una breve tournée in Francia, sarà a Perugia il 21 dicembre. «Sono tornata a lavorare per cercare di superare il dolore», racconta. L’attrice compirà 68 anni il 14 dicembre. Non li dimostra: il fisico minuto le conferisce un’eleganza senza età. Il viaggio a Roma è il primo che fa in aereo dopo la tragedia. «Sono felice di avercela fatta», dice sorridendo prima di parlarmi della sua vita, dei suoi amori, delle sue sfide e delle due figlie attrici, Charlotte nata nel 1971 dal suo legame con Serge, e Lou, 32 anni, frutto del rapporto ormai finito con il regista Jacques Doillon. Jane indossa un paio di pantaloni neri Yves Saint Laurent  («Pensi, sono 
di 45 anni fa»), una camicia bianca e scarpe basse.
Al braccio ha una “Birkin” nera, ma l’ha sdrammatizzata con adesivi colorati e ciondoli. Mentre condivide con me i suoi sentimenti più intimi, sorride con delicatezza. E io faccio fatica a non prenderle la mano quando le racconto di essere rimasta colpita qualche settimana fa dalla mostra Actrices, che raccoglieva le foto scattate da Kate ed era allestita con amore dalla sua amica Aline Arlettaz. «Ha visto che bei ritratti?», mi fa Jane. «Mia figlia era eccezionale».
Che cosa, soprattutto, ricorda di lei?
«La sua capacità di essere buffa. E la sua umanità. Coglieva l’anima delle persone, non si limitava a fotografarle. Ma ci ha lasciato anche dei magnifici paesaggi che rivelano tutta la sua solitudine e le sue angosce. Li ho in casa e sono felice di vederli ogni giorno, mi sembra di continuare a parlare con Kate».
Chi l’ha sostenuta in questi ultimi mesi?
«Le persone che mi sono più care: le mie due figlie, mio fratello e mia sorella che prendevano il treno quasi ogni giorno da Londra per starmi vicina. E tanti amici. Non sono mai stata sola, per fortuna».
Serge Gainsbourg è ancora una presenza?
«Sì, e non solo perché abbiamo avuto una grande storia d’amore e condiviso tanti successi come Je t’aime moi non plus. Nel 1969 il nostro disco venne proibito dappertutto e veniva venduto di nascosto, infilato nelle copertine della Callas.  Serge è stato un genio che ispira ancora tanti artisti. Altro che provocatore. Mi piace ricordarlo come un uomo divertentissimo che adorava fare scherzi atroci».
Davvero? Ricordiamo tutti la sua aria sempre sdegnata.
«Una volta simulò un attacco cardiaco, fu ricoverato in ospedale e in sala operatoria si rialzò con uno sberleffo. Lui era così. Per Charlotte e la stessa Kate è stato un padre bizzarro e magnifico».
Lei era consapevole, quarant’anni fa, di dare scandalo?
«Non me ne rendevo conto e tutto sommato me ne fregavo. Ero appena sbarcata a Parigi da Londra, per me era tutto nuovo e bellissimo. Ero innamorata pazza di Gainsbourg: mio marito John Barry se n’era andato con un’altra e Serge fu il primo a trovarmi carina».
Che cosa le resta del passato?
«Le mie figlie. E i nipoti: il primo, Roman, mi ha reso nonna a nemmeno quarant’anni. E dei sessanta film che ho girato, ne salvo appena una decina a cominciare da Blow up di Michelangelo Antonioni».
È orgogliosa della carriera di Charlotte e Lou?
«Ho un’ammirazione folle per loro, io non sono stata tanto dotata. Lou è anche brava a cantare ha inciso il secondo album: semplicemente fenomenale. Charlotte è la migliore attrice della sua generazione, ha un talento conturbante. Si è appena trasferita a New York con i figli: non se l’è sentita di rimanere a Parigi dove tutto continua a parlarle della sorella scomparsa».
L’amore è stato importante nella sua vita?
«Moltissimo. Ho vissuto delle belle storie e ho ancora buoni rapporti con i miei ex. Soprattutto con lo scrittore Olivier Rolin, che dopo la fine della nostra relazione è diventato uno dei miei migliori amici». D’improvviso squilla il telefono e dall’altra parte c’è proprio Olivier e Jane gli chiede di richiamare.
Il cinema le manca? 
«Nemmeno un po’. Ho messo piede sul set per l’ultima volta nel 2009 per girare il film Questione di punti di vista, accanto a Sergio Castellitto. È passato troppo tempo, oggi avrei paura di recitare. Il cinema non è più il mio mondo».
Il momento più bello della sua vita?
«Non vorrei sembrare banale, ma penso alla nascita delle mie figlie. Tutte e tre le volte ho vissuto la maternità come un miracolo».
Ricorrerebbe al bisturi per ringiovanire?
«Non condanno chi lo fa, ma io non ne avrei il coraggio. Sarei terrorizzata all’idea di finire sfigurata per errore. L’età non mi ha mai angosciata, ho sempre accettato con serenità l’idea d’invecchiare. A farmi paura, semmai, è il rischio di non essere autosufficiente. Non potrei sopportare il pensiero di dipendere dagli altri».
Che cos’è, per lei, lo stile?
«Mettersi addosso il meno possibile. Per questo penso di avere un’eleganza “pigra”. E mi è sempre piaciuto vestirmi da ragazzo, con quello che capita. I tacchi? Non so che cosa siano».
Com’è nata la borsa che porta il suo nome?
«Trent’anni fa, a bordo di un volo Parigi-Londra, incontrai Jean-Louis Dumas, il presidente della maison Hermès e gli manifestai il mio desiderio di avere 
una borsa comoda e femminile per il week end. Lui mi rispose: “Disegnala tu”. Non potevo mai immaginare che avrebbe avuto tanto successo. Una volta, a New York, mi presentano un tipo. Dico: “Piacere, Jane Birkin”. E quello: “Ma si chiama come la borsa?”».
Con questa nota un po’ frivola si conclude la nostra conversazione. Jane sorride, ma un velo di tristezza non l’abbandona. «Mi scusi se le ho parlato tanto di Kate, sono ossessionata dal suo ricordo», dice salutandomi. Il suo dolore lancinante ma composto mi rimarrà impresso per un bel pezzo. Il tempo è la migliore medicina, si dice sempre, e le auguro di cuore di riconquistare un po’ di serenità. 
Ha seminato tanto amore, sono convinta che non sarà mai sola.
http://www.grazia.it/magazine/interviste/Jane-Birkin-Voglio-vincere-la-paura