Julianne Moore: «Chiedimi se sono felice»

È tra le attrici candidate all’Oscar e noi scommettiamo che, il 22 febbraio, vincerà la sua prima statuetta. Oggi lei ride spesso, e si dice soddisfatta della sua «ordinata normalità»: un grande amore, due figli, libri da leggere e scrivere. E pensare che, vent’anni fa, si sentiva «smarrita»
Superati i trent’anni, Julianne Moore si sentiva persa: se la sua vita professionale aveva preso il volo, quella privata era ridotta ai minimi termini. «Mi sentivo sola, non ero felice. Avevo passato dieci anni a lavorare sodo nel tentativo di arrivare non si sa bene dove, e infatti non ero arrivata da nessuna parte: avevo solo un lavoro, mentre io volevo una famiglia».
Confusa sul da farsi, si rivolse a una psicologa, che andò subito al dunque: doveva dare al privato lo spazio che meritava. «Ho capito che era importante esattamente come la carriera. Il tempo non lo sfruttavo. Non lo investivo. Come dico spesso alle amiche, tutti pensano che la vita privata proceda da sola, mentre quella professionale ha bisogno di cure. Ma non è vero: bisogna curarle entrambe».
Da allora, e in modo quasi miracoloso, Julianne è riuscita nel suo intento. Ha scelto di vivere a New York, e si è costruita una vita privata invidiabile, con una relazione che dura da diciannove anni e due figli. Sul fronte lavorativo, ha sfidato una di quelle verità che a Hollywood si danno per scontate – ovvero che a quarant’anni un’attrice sia finita – e ha realizzato buona parte delle sue cose migliori: Lontano dal paradiso e The Hours nel 2002, I figli degli uomini nel 2006. Come Meryl Streep, riesce ad alternare con disinvoltura film commerciali come Hunger Games e progetti indipendenti. Si è inoltre affermata anche nel mondo della bellezza e in quello della moda, firmando contratti a sei zeri con marchi come L’Oréal e Bulgari. 
Ed ecco che, a cinquantaquattro anni, Julianne Moore si ritrova perfettamente a suo agio sotto i riflettori. Ha già incassato un Golden Globe, un Bafta e un Sag Award per il suo ruolo in Still Alice, dove interpreta una docente universitaria affetta da Alzheimer precoce, e i pronostici la danno unanimemente superfavorita anche per l’Oscar come miglior attrice, il primo dopo cinque nomination. Non è stata soltanto fortuna. «L’idea che una persona sia protagonista della propria storia, che la vita si possa costruire, è un’idea bellissima», dice, citando uno dei suoi libri preferiti, Piccole donne. «Io ci credo parecchio. Ho avuto molta fortuna, ma la mia vita me la sono creata da sola».
Mentre pranziamo a Palm Springs, in una giornata di gennaio, Julianne Moore sprizza gioia. Ride spesso, e parla serenamente di qualsiasi argomento, dallle poesie di Margaret Atwood ai mobili scandinavi a una nuova app per imparare le lingue: «L’ultima volta che sono stata a Berlino, per Hunger Games, ho passato tutto il volo a esercitare il mio pseudo-tedesco. Una cosa patetica!». Quand’è a casa a New York, ha una vita ordinata e normale: sveglia verso le sei e mezzo, e yoga tre volte alla settimana. Legge molto: ultimamente, Il cardellino di Donna Tartt, Lucky Us di Amy Bloom. «E Yes Please di Amy Poehler. Mi è piaciuto tantissimo». Scrive, anche: nel 2007 ha pubblicato il best seller per bambini Freckleface Strawberry, e ora ha firmato un contratto per cinque libri, sempre per bambini, con Random House. Il primo, Backpacks!, uscirà a luglio. È appassionata di arredamento e naviga spesso su siti come Remodelista – «Sono affascinata dall’impulso che ci spinge a decorare noi stessi e gli ambienti in cui viviamo» – e ha un grande senso dell’umorismo.
Racconta un aneddoto sulla sua coprotagonista in Hunger Games Jennifer Lawrence: «Lei fa davvero ridere. La prima volta che l’ho incontrata, ero in roulotte seduta al make- up, e i truccatori stavano provando non so quale prodotto. Entra Jennifer, e io le faccio: “Aspetta, ti lascio il posto”. E lei: “No, stai pure lì, così ti posso odiare in silenzio”».Si definisce una che fa amicizia facilmente: «Di Ellen Page mi sono innamorata», racconta a proposito della sua coprotagonista nel film di prossima uscita Freeheld. «Lei è un’amicizia recente. Ellen Barkin una di vecchia data. Se si chiamano Ellen, mi piacciono». Nonostante i modi alla mano, è anche una donna dalle idee forti e chiare. Ha suscitato reazioni inferocite quando, su Twitter, ha preso le difese del controllo delle nascite e si è espressa a favore di norme più severe sul possesso di armi. «Su questo ultimo argomento, in particolare, ricevo più risposte che su qualsiasi altro tema. Ma non capisco in che modo imporre regole che garantiscano un minimo di sicurezza “metterebbe a repentaglio il secondo emendamento” (quello che nella Costituzione degli Stati Uniti d’America tutela il diritto di portare armi, ndr), come sostiene chi mi critica. No, giuro che non lo capisco».
Tutto così normale, insomma, che quasi si fatica a crederci. Possibile che un’artista dello spessore di Julianne Moore sia associata più alla semplicità che alla complessità? «È brava a interpretare le persone normali», dice Kristen Stewart, sua coprotagonista in Still Alice. «Ma in lei ci sono infinite sfaccettature. Di normale non ha proprio niente». Anche Julianne, in effetti, ha attraversato le sue turbolenze: ammette che un’infanzia vagabonda le ha lasciato un senso di instabilità, e nei suoi discorsi affiora in continuazione il tema della transitorietà. Dice di non credere in Dio, ed è profondamente convinta che l’esigenza di dare un senso alle cose risponda al nostro bisogno di controllare un mondo caotico. «Quando è morta mia madre, cinque anni fa, ho capito che l’aldilà non esiste. È solo un’invenzione come tante che ci aiuta a dare alle cose un ordine e una logica per comprenderle meglio. Altrimenti esisterebbe solo il caos».
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L'intervista completa e il servizio fotografico esclusivo su Vanity Fair n.7, in edicola da mercoledì 18 febbraio 2015.
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