Festival di Roma 2012, James Franco si racconta: «Attore sì, ma ho altri interessi…»

L’attore riceve il premio Cubovision e incontra il pubblico del Festival, parlando della sua passione per le arti, dalla pittura alla fotografica, che sta diventando un vero e proprio lavoro
James Franco è al Festival sia per presentare il suo cortometraggio Dreams, che definisce come «un insieme di immagini che provengono da sogni e da esperienze personali. Un film che abbiamo cercato di modellare come una scultura», sia come interprete di Tar, una pellicola scritta e diretta da 12 registi, che mette in scena diverse poesie del Premio Pulitzer C.K. Williams.
Oggi l’attore, che ha ricevuto il premio Cubovision Telecom, conferitogli per il suo talento poliedrico, ha incontrato il pubblico del Festival raccontando un po’ di sé e del suo progetto Rebel; una mostra collettiva al Moca di Los Angeles, che trae ispirazione dal film di Nicholas Ray, con James Dean, Rebel Without a Cause (Gioventù Bruciata). Un progetto che coinvolge diverse arti visive, quali la pittura la scultura e la fotografia, con diverse opere tutte legate all’essenza del film.
Durante la masterclass dedicata ai confini che ci sono tra il cinema e le arti figurative, James Franco ha parlato del suo rapporto con il mondo di Hollywood e, soprattutto, dei suoi interessi verso le arti, culminati con un master in Design e Arte.
Quanto ha influito nel suo processo creativo e nelle sue passioni l’essere nato in California ed essere cresciuto a “pane e Hollywood”?
James Franco: «Sono nato e cresciuto a Palo Alto, nella California del Nord, dove il settore trainante è quello dell’informatica (sono andato a scuola con la figlia di Steve Jobs). All’inizio il cinema non mi sembrava una realtà a me vicina. Mi sentivo già vecchio a 15 anni per iniziare a occuparmene. James Dean e River Phoenix avevano iniziato a 12 anni.
A 18 anni mi sono trasferito a Los Angeles per frequentare l’università; letteratura, recitazione e cinema erano materie oggetto del mio interesse. Volevo poi frequentare una scuola d’arte, ma mio padre voleva che facessi il matematico. La mia famiglia non mi appoggiava in questa scelta, quindi trovammo un compromesso e mi ritrovai a studiare letteratura inglese nel cuore di “movieland”, dove tutti attorno a me, in un modo o nell’altro, lavoravano o studiavano il cinema. Qui per la prima volta ho visto che c’erano possibilità reali di andare a lezione di recitazione e fare delle audizioni. Dopo un anno ho mollato l’università per andare a scuola di recitazione. Poiché i miei genitori, in seguito a questa scelta, decisero di non sostenermi più, feci diversi lavori fino a che riuscii a entrare nel casting dello spot per Pizza Hut: da quel momento sono diventato un attore e sono riuscito a guadagnarmi da vivere. Per otto anni sono stato un attore molto serio, ma nel frattempo, segretamente perseguivo gli altri miei interessi quali l’arte e la scrittura.
Sono molto grato alla mia carriera di attore ma ho preso la decisione di perseguire gli altri miei interessi e di farne il centro della mia attività. Diciamo che faccio l’attore di giorno e per il resto del tempo seguo gli altri interessi in cui ho messo il mio cuore.»
Ci può parlare del progetto Rebel?
J.F. «Come è nato Rebel? All’inizio della mia carriera ho recitato nel ruolo di James Dean per un programma televisivo, era un prodotto molto tradizionale e biografico. Dopo 10 anni mi sono ritrovato ad interessarmi nuovamente alla sua figura, in particolare a quello che esprime nel film Gioventù Bruciata, che è una pietra miliare di Hollywood. Questa pellicola dice moltissimo su che cosa è un film e su cosa vuol dire recitare in un film. Insomma, è al centro di molte cose che hanno a che vedere con il significato dell’essere attore, dell’importanza della recitazione e della stessa Los Angeles. Volevo fare qualcosa con questo film, ma non sapevo bene né cosa fare, né come farlo. Duglas Gordon mi ha aiutato e mi ha insegnato che la televisione, i video e i film sono una parte enorme della nostra vita quotidiana, e la metà di tutto quello che noi vediamo, proviene proprio da questi mezzi. Non so se ciò sia un bene o un male, ma per me questo è una parte importante della nostra identità. In qualche modo noi siamo anche ciò che queste immagini ci dicono. Per questo volevo prendere il film e utilizzarlo come materiale grezzo per farci qualche altra cosa, mettendone in risalto i suoi significati. Alla fine, con gli artisti con cui ho collaborato, abbiamo deciso di fare un film che coinvolgesse più gli artisti stessi che non i cineasti per creare qualcosa che potesse fungere da ponte tra i due mondi. Abbiamo “fratturato” il film e ogni artista ha lavorato a una sezione di questo, trasformandolo in altro: scultura, pittura, fotografia e video.
Trovo che i film commerciali siano una grossa fonte di ispirazione per far sì che poi vengano trasformati in un prodotto artistico.
Oggi ci sono molti artisti che vogliono dedicarsi al cinema, io invece sto facendo il contrario. Voglio usare i film per farne qualcosa di diverso, frantumandone la narrativa. Non avendo bisogno di “vendere biglietti” posso sentirmi più libero di sperimentare».
Quale è la differenza più evidente tra il mondo dell’arte e il mondo del cinema?
J.F.« Domanda difficile. Penso che questi mondi si fondano ma, nel contempo, siano anche molto diversi. Penso che l’elemento determinante sia il cambiamento di contesto e come il pubblico interagisce con un film al cinema e con un’opera d’arte. Ci sono diverse aspettative. Io tento di prendere una cosa da un mondo per poi metterla nell’altro, cambiandone il contesto.
A fare la differenza tra questi due mondi è anche il meccanismo della vendita. Se si produce un film si vogliono vendere i biglietti per recuperare il costo, gli artisti invece lavorano su un numero limitato di pezzi e quindi sono liberi dall’obbligo di intrattenere un’ampia fascia di pubblico, così possono focalizzarsi su un progetto con una maggiore intensità, senza essere schiavi dell’obbligo di intrattenere e di vendere centinaia di copie».
Come si riesce a portare alla gente comune un prodotto artistico a cui magari non è abituata?
J.F.« Negli ultimi 100 anni il cinema è stata la forma artistica dominante, le altre arti hanno invece un pubblico più ristretto. Quando si sceglie un “medium” si sceglie anche il pubblico a cui ci si vuole rivolgere. Mi piacerebbe che le mie opere potessero essere viste da quante più persone possibili, ma gli artisti sono consapevoli di appartenere ad un mondo un po’ diverso. In fondo i film sono prodotti solo per soldi. Le opere d’arte, che hanno un fine diverso, si sa che saranno rivolte a un pubblico più ristretto».
Quale è la prima cosa che fai quando devi affrontare un personaggio? Vai alla ricerca di qualcosa nel tuo background artistico?
J.F.«Se accetto di fare un ruolo in un film, ci devo credere. Se salgo su un treno devo sapere dove sta andando. Quando ho fiducia nel regista, do tutto me stesso. Per il personaggio devo prima di tutto sapere se sono in linea con quello che vuole il regista. Quando ero più giovane, facevo molte ricerche sul ruolo, per conto mio. Poi scoprivo, sul set, che l’idea che mi ero fatto non era quella che voleva il regista.
Di solito lavoro prima sul personaggio, cercando di scoprire chi sia: vita, storia e opinioni personali. Poi cerco di capire come si inserisce all’interno della storia del film e qual è il suo ruolo e i suoi rapporti con gli altri personaggi».