Una chiacchierata con Sinéad O'Connor

BRAY (Dublino) Si affanna in cucina come una massaia, mentre una giovane collaboratrice domestica ammucchia nel cesto una montagna di biancheria da stirare. Bray, mezz'ora di macchina da Dublino, villetta vista mare. «La riconoscerà», assicura Sinéad O'Connor al telefono: ha un nome italiano, Montebello, e un angolo è dipinto con i colori della bandiera giamaicana. Da qualche anno, in rotta di collisione con la chiesa cattolica, si è avvicinata alla fede rastafari. Anche se all'ingresso, ad accogliere gli ospiti, c'è una statua della Vergine Maria a grandezza d'uomo.
«Ho smesso da tempo di credere alle religioni organizzate», spiega la cantante mentre prepara il caffè. «Sono una cortina di fumo che distrae la gente dallo Spirito Santo. Hanno tradito il principio fondamentale, che è quello dell'amore incondizionato; dobbiamo cominciare a separare l'idea di Dio dalle religioni». Assaggia il caffè dal mug, come si fa col biberon dei neonati per assicurarsi che la temperatura sia giusta. «Rovente», borbotta. Ne versa un po' nel lavandino e aggiunge latte freddo. Assaggia di nuovo. «Perfetto». Me lo porge e m'invita a seguirla al piano di sopra. La stanza dipinta color cieloè luminosissima. Sulle pareti, enormi raffigurazioni della trinità indù. Sinéad accende la prima sigaretta della giornata. I bambini sono a scuola, la casa è un'oasi di silenzio. La presenza dei piccoli è testimoniata da peluche di tutte le dimensione sparsi ovunque, dalle cartacce dei muffin dimenticate negli angoli, dal cartello che la mamma tiene bene in vista sopra il frigo: niente junk food dal lunedì al sabato pomeriggio. «È per loro che tredici anni fa ho lasciato Londra», racconta, «qui possono fare una vita più sana».
Raggomitolata su un cuscino, si sfila il buffo zuccotto rosso: ha la testa rasata come ai tempi di Nothing compare 2U, il brano di Prince che nel 1990 la trasformò in una sorta di eroina. La canterà anche nei due concerti italiani - il 2 aprile alla Fenice di Venezia e il 7 all'Auditorium Parco della Musica di Roma- insieme alle canzoni (bellissime) dell'ultimo How about I be me (And you be you)? È quasi incredibile che, dopo gli scontri a volte violenti avuti con la stampa, Sinéad accolga in casa un giornalista. «Non sono mai stata offesa da un italiano», precisa, «ma, è vero, mi descrivono come una pazza. Non posso lamentarmi se qualche volta hanno invaso la mia privacy, sono una che ama fare le cose alla luce del sole. Ho sempre lasciato correre. Penso: poveracci, sono freelance che non riescono a sbarcare il lunario. Gli editori dei tabloid sono sciacalli, le giornaliste sono trattate in modo disumano se non portano le storie che i loro capi si aspettano. Non è solo il music business a essere corrotto, è il mondo intero. Incomincio a spiegarlo ai miei bambini: il cinquanta per cento delle persone è per bene, gli altri sono bastardi».
Ha quattro figli da quattro matrimoni. Il primo, Jake, ha venticinque anni, fa lo chef a Londra. Sinéad aveva ventun anni quando è nato. «La maternità mi ha salvato la vita», confessa. «E più di una volta. Se non fosse stato per loro sarei diventata una tossica, nel tipico modo dei rocker intendo. E magari sarei morta a ventisette anni, come Jimi, Kurt o Amy. Sono finita direttamente dall'inferno dentro il music business».
I suoi genitori erano separati. Per Sinéad la vita con la mamma era un incubo. Con lei restarono i quattro fratelli (con il più grande, in particolare, Joseph O'Connor, famoso scrittore,i rapporti ancora oggi sono complicati, anche se è a lui che Sinéad ha dedicato l'ultimo disco) mentre lei, a tredici anni, andò a vivere con il papà. E iniziò una nuova vita. Non senza difficoltà. A quindici anni fu sorpresaa rubare in un negozio - vizio che aveva ereditato dalla mamma - e affidata a un collegio di suore. «Dire che mio padre fosse preoccupato è poco. Ma ci assomigliamo molto, e in fondo mi capiva», racconta. «Cantare era l'unica cosa che sapevo fare, a scuola ero una frana, non passavo un esame. Quando guardava le mie pagelle, scuoteva la testa e mormorava: figlia mia, tu finirai male. Venivo espulsa continuamente, perché fumavo o portavo la chitarra in classe.
Avevo diciassette anni la mattina che trovai insopportabili le due ore di economia domestica. Chiamai il bassista della band e gli dissi: vienimi a prendere, non ce la faccio più. Non tornai a casa per due settimane, alla fine dovetti chiamare mio padre perché non avevo più un centesimo. Lui si arrabbiò moltissimo, ma sapeva che non sarei tornata indietro e, essendo lui stesso un tenore frustrato, sotto sotto assecondava le mie aspirazioni. Senza la musica sarebbe finita malissimo. Non ho talento per nient'altro. Mia madre prima di morire (in un incidente stradale, nel 1985) mi disse scettica: molti sono chiamati, pochi sono gli eletti». Si com F muove. Riflette: «L'arena del pop è spiritualmente molto, molto corrotta».
Dopo l'album The Lion and the Cobra (1990) aveva tutte le carte in regola per correre il rischio di diventare la nuova Janis Joplin. Quando nel '93 Jim Sheridan la volle per cantare You Made Me the Thief of Your Heart nella colonna sonora del film Nel nome del padre, Sinéad aveva ancora la chance di diventare, per credibilità e intensità, l'alternativa femminilea Bono degli U2 (lo riafferma con orgoglio: «Sono una cantante di protesta, una missionaria»).
Ma era ingestibile, lo star system prese quasi subito le distanze: testarda, imprevedibile, incontenibile. Troppe esternazioni pubbliche, non sarebbe mai diventata la Giovanna d'Arco del pop che avevano cominciato a disegnare: le violenze domestiche subìte dalla madre; la sessualità borderline («Sono etero per tre quarti e per un quarto lesbica»); la ribellione contro la chiesa - alla fine degli anni Novanta si fece ordinare sacerdotessa col nome di Madre Maria Bernardetta dal vescovo di una chiesa indipendente irlandese, gesto che le valse la scomunica («Che comunque il Vaticano non mi ha mai ratificato»); la pubblica dichiarazione dei suoi malesseri fisici e mentali - disturbo bipolare, impulsi suicidi, fino alla recente ricerca di un partner in chat («Se vado avanti così dovrò consolarmi con una banana»). «Dicono che una donna sacerdote è il demonio», attacca, «e i preti pedofili? Non dovrebbero essere i piccoli violentati a essere santificati invece dei papi? Non sarà certo un papa così anziano come Francesco a rivoluzionare la Chiesa e ad aprire il sacerdozio alle donne. La mia idea è che sono tutti nel panico, perché sanno di avere le ore contate». Scatenò un putiferio quando nel corso di un'apparizione al Saturday Night Live, il più popolare varietà americano, stracciò in diretta l'immagine di Giovanni Paolo II. «Se lo facessi oggi avrebbe più senso», assicura. «In Irlanda, nel 1997, già si parlava dei preti pedofili, negli Usa invece lo scandalo esplose nel 2000, così gli americani non capirono il senso di quel gesto. Ma sa cosa penso? Che la pedofilia è solo la punta dell'iceberg, ne verranno fuori di scandali, anche peggiori. Ho guardato le immagini dell'elezione del nuovo pontefice. Gli faccio gli auguri, è un papa che promette bene, ma se approfondisci le Scritture capisci che il Redentore è venuto al mondo per far capire alla gente che le religioni sono truffaldine, per esortarla a rivolgersi al Padre senza intermediari, per liberarla col suo sacrificio dal terrore della morte. La chiesa invece pone l'enfasi più sulla morte che sulla resurrezione. Sono diventata rastafariana perché è un movimento, non una religione; crediamo fermamente in Cristo, che è anche energia (ecco il senso della stanza in cui ci troviamo), e nell'idea di Dio al di fuori dalla religione organizzata. Anche il rifiuto di aprire il sacerdozio alle donne è un abuso perpetrato dall'ufficio del Papa, come se non facessimo parte del corpo di Cristo! Il Vaticano non riesce più neanche a rispettare i pontefici, figuriamoci il popolo della Chiesa. Il povero Giovanni Paolo II si trascinava debole e malato in giro per il mondo, esibito alla piazza anche dopo la tracheotomia, quando non riusciva a parlare. Papa Francesco sarà anche l'uomo migliore della Terra, ma non ce la farà a salvare il Vaticano».
La sera, Sinéad è invitata allo spettacolo di punta della televisione irlandese, il Saturday Night Show. «Sto ancora imparando a suonare la chitarra», dice modesta mentre intona la struggente The Reason with Me. Alla fine dell'esecuzione Brendan O'Connor (nessun grado di parentela) è commosso, senza parole. Non si aspettava che l'artista potesse recuperare dopo tante traversie l'intensità di Nothing compares 2U. «Con questo disco ho voluto riconcentrare l'attenzione su di me come cantante», conclude Sinéad, «lasciando indietro tutto il resto, il gossip, le polemiche, le stravaganze, o almeno quelle che altri considerano tali facendomi sembrare una matta vera.
Finché riesco a scrivere e cantare canzoni, sono salva».
Di GIUSEPPE VIDETTI