Lana Del Rey "ULTRAVIOLENCE" recensione di OndaRock

E’ l’ora della verità per Lana Del Rey: “Born To Die” è stato 
un evento musicale o è un falso?
I complottisti sono già tutti agitati come ai tempi del libro di Bill Kaysing “Non siamo mai andati sulla Luna”, e tutto sembra accreditare le ipotesi della inconsistenza dell’evento discografico (oddio, molti lo pensano, senza neppure caldeggiare l’idea della macchinazione o del falso storico). Kaysing affermava che negli anni 60 la tecnologia non era sufficiente per andare sulla Luna, i complottisti moderni sostengono che l’evoluzione scientifica ha dato vita a un mondo virtuale dove tutto è possibile, con la Del Rey a essere solo l’ultima versione delle eroine alla Lara (notare la coincidenza) Croft. Gli americani finsero di andare sulla Luna per motivi economici, il complotto Rey serve per ricreare suggestione intorno a un mercato discografico in perenne crisi. 
Ovviamente Stanley Kubrick (il titolo è comunque un omaggio al suo “Arancia Meccanica”) non era più disponibile per realizzare i falsi filmati della impresa discografica, ed ecco spuntare il nome di David Lynch, il regista perfetto per dar vita a una diva contemporanea dai contorni misteriosi e ambigui. Questa storia sembra comunque piena di ombre e luci, a partire dalla bandiera patriottica sventolante nel preview di “Born To Die”: che sia la stessa dell’allunaggio? Le labbra di Lana sono così grandi solo per un errore fotografico di prospettiva che non ha tenuto conto delle luci e dei riflettori, o è una grossolana distrazione del regista? I ritocchi fotografici servono a nascondere la sua vera natura?
Complotti e scherzi a parte, un dato di fatto incontrovertibile è il successo di “Born To Die”: il nome di Lana Del Rey è uno dei pochi entrati nell’immaginario comune (un tempo definito collettivo), uno dei pochi idoli contemporanei noti sia al giovane fan della musica indie che all'attempato adoratore dei Pink Floyd o dei Radiohead, e giuro che non c’è nulla di più divertente che vedere le smorfie sul volto di un amico a cui chiedi: “Ti piace?”. 
Il successo della cantante indiscutibilmente è frutto anche di un perfetto marketing, che è riuscito a concentrare l’attenzione sul personaggio oltre che sulla musica. La differenza però con quegli artisti che negli ultimi anni hanno rappresentato la pop music da classifica (Rihanna, Kanye West, Beyoncé , Justin Timberlake, Lady Gaga, Pharrell Williams) è data dalla consapevolezza artistica della protagonista e dal suo coinvolgimento creativo più intimo, meno legato alle logiche delle classifiche.
“Born To Die” era un disco dal fascino ruffiano e trasversale, capace di conciliare mainstream e fenomenologia indie, ma quelle canzoni rappresentano l’identità che Elizabeth Woolridge Grant (il vero nome) ha voluto dare alla sua creazione: il fascino glamour, il tocco dark alla Lynch, i temi ricorrenti della morte, del sesso e i rituali associati a questi elementi (amare cattivi ragazzi e vestirsi/svestirsi di rosso fuoco) sono la sceneggiatura entro la quale l’artista si muove a suo agio, una realtà virtuale dove poter essere autentica e artefatta nello stesso istante. 
Non è quindi strano che “Ultraviolence” suoni come un sequel di un colossal di successo, ma quello che subito colpisce l’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto e cinico è il nuovo abito sonoro cucito intorno alle canzoni, un raffinato timbro monocromatico infarcito di blues, country, dream-pop, che svela di continuo infinite sfumature. 
I complottisti avranno vita dura nel demolire la nuova impresa della ventottenne di New York: le undici canzoni di “Ultraviolence” (quattordici nella limited-edition) sono ancor più intense, e se molti le troveranno simili o affini è solo perché la personalità di Lana Del Rey emerge su qualsiasi cosa lei canti, anche adesso che la sua voce sembra rivolgersi con toni estatici a un pubblico di anime erranti senza corpo. 
Non ci sono più le orchestrazioni possenti e si sono diradate le melodie cantilenanti: qui il languore lirico segue le orme più di “Body Electric” e “Yayo” del “Paradise Ep” o della sua irraggiungibile “Video Games”, l’energia delle chitarre e un uso più intenso di echi e riverberi amplia il pathos e la magniloquenza delle sonorità, preservando quella densità sensuale da set cinematografico erotic-noir, anche se ascolti ripetuti svelano sempre nuove fonti di piacere come il tono quasi shoegaze di "Cruel World". 
Gli amanti di dietrologia stiano tranquilli, perché svanita la coltre di gossip e di inutili teoremi sulla figura femminile-femminista di Lana Del Rey, quello che resta è un album di belle canzoni il cui potere persuasivo cresce nel tempo: il primo singolo “West Coast” è l’unico brano dove sono rimaste tracce di quel trip-hop che si agitava in molte tracce di “Born To Die”, ma il produttore Dan Auerbach (sì, quello dei Black Keys) ha trasferito le pulsioni ritmiche in un contesto roots che il coro angelico alla Julee Cruise rende ancor più drammatico e aspro. 
Le successive pillole-video di “Shades Of Cool” e “Ultraviolence” hanno reso ancor più evidente il tono narcolettico dell’album e la maggiore natura psicologica della scrittura di Lana Del Rey, ormai decisa a sfondare il confine tra pop e songwriting dopo aver sconfitto il preconcetto di indie against mainstream.
“West Coast” non ha conquistato le classifiche (un timido 20° posto in Inghilterra) ma la title track sembra aver le caratteristiche giuste per affascinare quel pubblico che conosce la sua voce attraverso le colonne sonore di “Maleficent” e “Il Grande Gatsby”. Soave e ricco di atmosfere sognanti, "Ultraviolence" è un brano apparentemente innocuo, che detta però le coordinate dell’intero lavoro, una raccolta di canzoni che parlano di drammi personali, sogni infranti, amicizie spezzate in un concept-album più coeso e maturo del fortunato predecessore.
Non è un album nato per esigenze contrattuali o per raccogliere il successo del precedente capitolo: la mancanza di un singolo trascinante non è casuale. “Shades Of Cool” è lo schiaffo lirico più netto con il passato: l’ariosa ed eterea melodia, meno barocca che in passato, mette insieme Pink Floyd, Cocteau Twins, Portishead e Goldfrapp diventando uno dei punti di forza di “Ultraviolence”. Lana non ha dato credito a chi aveva già condannato “West Coast” come un suicidio commerciale: lei era più stimolata dalla possibilità di incontrare Lou Reed per proporgli una collaborazione in “Brooklyn Baby” (il controcanto che si ode evoca il suo inconfondibile stile), ma il suo sogno si è infranto poche ora prima della morte del musicista. Per fortuna la viziosa e polverosa ballad è qui a far luce come un faro: una brillante intuizione lirica destinata a raccogliere le gesta di “Video Games”. 
Quello che sorprende è la più coesa e imperturbabile qualità delle canzoni, il quasi blues di “Sad Girl” farebbe gridare al miracolo in qualsivoglia altro album pop, mentre qui è solo un’altra buona canzone, mentre un singolo potenzialmente trascinante come “Money Power Glory” è abbandonato in mezzo alle due canzoni più crude, ovvero la straziante preghiera stile Patti Smith/David Gilmour di “Pretty When You Cry” e la scontrosa “Fucked My Way Up To The Top”, che indugia senza la stessa verve sulle ossessioni liriche e musicali della musicista, restando a conti fatti l’episodio più debole dell’album.  
A questo punto è chiaro al lettore che l’autenticità e la pretesa mistificazione del personaggio poco importano. “Ultraviolence” è un film ancora più avvincente e convincente di “Born To Die”: l’urgenza e la volontà di riscatto e affermazione che premevano dietro le fastose ed epiche pagine del precedente capitolo sono lontane, in questo estatico e stregato mondo dell’artista c’è più spazio per il sogno e il romanticismo, come è evidente nelle due tracce conclusive del disco. Piano, violini e voce sono al loro picco emotivo nel travolgente romanticismo di “Old Money”, dove si avvertono raffinate citazioni di Nino Rota, e la cover di “The Other Woman” di Jessie Mae Robinson (portata al successo da Nina Simone e poi interpretata da Jeff Buckley e Sarah Vaughan) palesa ancor di più il carattere onirico delle canzoni di “Ultraviolence”, con quel canto rapito da un vecchio grammofono, chiudendo alfine il cerchio che lega inesorabilmente l’artista con il passato del divismo americano. 
Nonostante il gossip e le inevitabili critiche che faranno seguito all’album (ovviamente potete sempre protendere per l’ipotesi dell’inesistenza di una teoria del complotto e diventarne voi stessi parte integrante), la qualità delle canzoni sposta l’analisi sulla musica. Per coloro che sceglieranno di acquistare la limited-edition sarà interessante scoprire che tra esse si nasconde uno dei brani dalle sonorità più innovative e interessanti, ovvero il quasi psych-blues di “Guns And Roses”, ma anche una esoterica performance vocale (“Black Beauty”) e un altro strappo deciso con la musica pop da classifica (“Florida Kilos”), tre brani esclusi per una minore incisività sonora e un'atmosfera più grezza. 
Mi dispiace per tutti quelli che attendevano al varco Lana Del Rey per vendicarsi del suo successo. Lei è qui, affascinante e misteriosa come sempre, solo che non è la nuova Madonna o la risposta a Rihanna: lei è forse la nuova Julie London, la pin-up del nuovo sogno americano, dove la donna oggetto si è mutata in una consapevole protagonista di un gioco dei sentimenti nel quale nessuno è vittorioso.
http://www.ondarock.it/recensioni/2014_lanadelrey_ultraviolence.htm