La musica che non c'è. Chet Baker e Jeff Buckley

Il trombettista Chet Baker, con la sua grande capacità di tenere a lungo le note, e l’intensità della voce di Jeff Buckley sono i protagonisti di questo articolo curato da Gianni Giletti, membro della Fraternità del Sermig di Torino che ospita anche il Laboratorio del Suono.
CHET BAKER & PAUL BLEY, DIANE - Steeple Chase 1985
Un disco di Chet Baker è come la città di Torino; se non sei attento, te li perdi. Se lo ascolti distrattamente, “boh!”, non ti dice molto, un po' noioso, che diavolo, è jazz! Ma se per sbaglio ti passa un suo brano, lento, alla sera, dopo una giornata pesante, luce soffusa e mezza voglia di andare a dormire… tac, sei fatto!La sua tromba e la sua voce ti conquistano e dopo, nulla è più lo stesso. Chet Baker ha avuto una vita difficile, conclusa in maniera drammatica giù da un finestra ad Amsterdam nel 1988, in circostanze mai chiarite, ma ha seminato musica di alta classe, pur in mezzo a mille difficoltà e malesseri, droga e carcere, salute incerta e talento purissimo.Come trombettista, la sua specialità è il suono "soffiato"; sui lenti è letale, il suo suono è unico, caldo, poetico, le note lunghe, tenute all'infinito, ti commuove per la delicatezza. Un critico ha detto che il suo modo di tenere le note "ti faceva pensare al momento in cui una donna sta per piangere, quando la bellezza trabocca dal suo viso, in quell'attimo che, lo sai, non potrà durare. Ma in quell'attimo, più che in ogni altro, c'è il presentimento dell'eterno".In questo disco, notturno se c'è n'è uno, Chet Baker suona insieme ad un altro grande del jazz, il pianista Paul Bley, che sottolinea, scompare, grida e sussurra con il suo piano, accompagnando e divenendo complementare al grande trombettista.Piano e tromba, oltre alla voce di Chet, ti prendono per mano e ti portano in un luogo misterioso, lontano eppure familiare, dove i tuoi sogni prendono forma e diventano suono, poesia.
JEFF BUCKLEY, GRACE - Sony 1994
Nel mondo della musica si possono riconoscere tre tipologie fondamentali di persone: gli strumentisti, ovvero coloro che sanno tutto del loro strumento e del cui uso ne hanno fatto un’arte; i musicisti, i quali, a prescindere dalla loro capacità strumentale, “pensano” la musica prima di farla e quando la eseguono con il loro strumento o con altri strumentisti, suonano come fossero un’orchestra. La terza categoria sono gli artisti ovvero coloro che soffrono tutto quanto detto prima e ne fanno una questione esistenziale. Generalmente la sofferenza deriva dall’incomprensione degli altri nei riguardi della propria arte oppure da vicende di vita non proprio felici ma tanta è la sofferenza che – almeno a mio parere – separa gli artisti dal resto del mondo musicale.Jeff Buckley è stato sicuramente un’artista: a partire dall’infanzia – in cui non ha praticamente conosciuto il padre Tim, grande voce nella scena rock degli anni 60 e morto di overdose nel 1975 - fino alla morte assurda, dovuta ad annegamento nel Mississipi il 29 maggio 1997.Tra questi due eventi, la sua vita artistica comincia da una dura gavetta nei locali di mezza America per arrivare al successo praticamente con un disco solo.Parliamo di “Grace”, pubblicato nel 1994 che pur, non vendendo milioni di copie, fa di Jeff un artista di culto.Il disco è un controsenso già prima di ascoltarlo: solo tre pezzi sono suoi, tre sono cover di grandi artisti (tra cui Van Morrison e Cohen) gli altri sono scritti a più mani con i componenti della band.Inoltre furono necessari un anno di tempo e un milione di dollari di spesa per produrlo in quanto Jeff era molto incerto sulla direzione da prendere e faceva e disfaceva continuamente, cambiando testi e canzoni da un giorno all’altro tanto che la sua casa discografica pensava di desistere.Proprio quando sembrava che fosse finita, un altro dolore – la morte della madre dell’ex moglie – gli dona l’energia e la determinazione per concludere e sfornare questo disco, l’unico che gli renda davvero giustizia.Ciò che rende unico Jeff è l’intensità della sua voce, che parte pianissimo ma poi prende coraggio e finisce spesso per urlare, mescolando dolcezza e violenza su un tessuto musicale che spesso mette in evidenza gli arpeggi della chitarra elettrica, ma che quando esplode la accompagna con tutta la potenza che il rock può esprimere.E’ un disco umorale, notturno, emotivo al massimo, sembra di vedere - più che ascoltare - le proprie emozioni farsi immagini. Un brano su tutti è la straordinaria cover di Leonard Cohen “Hallelujah”, dove solo con la chitarrina elettrica Jeff fa venire davvero i brividi.Quel disco lo fece conoscere in tutto il mondo e mentre stava registrando il secondo (My sweetheart the drunk, uscirà postumo e monco) purtroppo la sua vita finì, come detto, sulle sponde del Mississipi.Resta per fortuna la sua arte, tutta concentrata in questo disco, che non si fa dimenticare.
Gianni Giletti
korazym.org