La Chapman e "Our Bright Future" Il dramma di Britney in un brano

Vent'anni fa di questi tempi, fra il luccichio e il tum-tum delle discoteche si faceva largo una voce spoglia e un po' cavernosa: si accompagnava solo con la chitarra, e a sentire «Talkin' About A Revolution» quelli con ancora le spalline larghe sotto la giacca pensarono a una povera pazza, così dimessa e un po' mascolina, con la pelle nera coperta di tanti riccioli. Gli altri la ascoltarono al concerto per i 70 anni di Mandela a Londra o all'Amnesty International Tour che passò nell'88 da Torino con Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Sting (più il povero Baglioni preso a pomodorate), e andarono a comprare il suo disco, chiamato solo «Tracy Chapman». Furono 18 milioni di copie nel mondo, record per un'opera prima poi superato solo da Alanis Morissette. Da allora la chanteuse e autrice di Boston si è trasferita a San Francisco, in una casa con giardino dove coltiva pomodori e fagioli, e scrive. Non ha cambiato una virgola nella propria weltanschauung, che si ripete nel ventennale del successo con «Our Bright Future», un disco in uscita il 7 novembre, seguito da un tour voce-e-chitarra come allora, di passaggio pure in Italia. «Our Bright Future» è senz'altro un bel disco, impastato con la semplicità della raffinatezza, con ottimi musicisti fra i quali il coproduttore bassista Larry Klein, ex marito di Joni Mitchell, il batterista Steve Gadd, il pianista di Norah Jones Rob Burger. Ma ballads argentine, echi country, caròle quasi infantili e una generale, piacevole leggerezza, nascondono anche contenuti di tutt'altra caratura: a partire dalla canzone del titolo, sull'impossibilità di un avvenire radioso. Affondata su una poltrona in un hotel milanese, ciarliera dopo anni di timidezze, Tracy non le manda a dire: «E' una canzone sulla guerra, no? Cosa offriamo noi yankee a un giovane? Abbiamo due guerre in corso, la gente che muore di fame, il paese intero che chiude per fallimento». Ovviamente pensa che Obama possa salvare gli Usa, ma se si approfondisce, neanche lei è troppo sicura che vincerà la corsa alla Casa Bianca: «Sarà una gara al fotofinish». L'atavica riservatezza sparisce se deve parlare di Sarah Palin: «Penso che non sia qualificata e abbia poca esperienza per gli incarichi cui sarebbe chiamata. E' stata una scelta furba dopo il caso Hillary, però la sua debolezza potrebbe aiutare Obama a vincere: tra l'altro, McCain ha il cancro e se se ne andasse durante il mandato, rimarremmo nelle sue mani. La sua popolarità non fa che distrarre la gente, si parla d'altro e non delle grandi questioni su cui McCain non si è ancora pronunciato». Altri temi scottanti: l'invasione della religione in una specie di gospelino laico, «Save Us All»: «Canto che dobbiamo salvarci da questa gente che ci vuol convertire: la nostra tradizionale separazione fra chiesa e stato è saltata, i conservatori cercano i voti delle sette». Ma soprattutto, spunta un fantasma assai noto dentro «I Did It All», una ballatina alcolica che mette in fila tutti i nomi dei cocktail made in Usa: la protagonista del brano non dorme mai, sta nei bar fumosi, va ai party, frequenta divi di serie B, viene arrestata, è perseguitata dai paparazzi dei tabloid. Ma Tracy, questa potrebbe essere Britney Spears, le diciamo. Lei sorride sibillina sotto le treccine rasta: «Maybe». *** Il tour: 28 novembre Arcimboldi di Milano, 29 Auditorium di Roma, 1 dicembre Verdi di Firenze.
Marinella Venegoni