Libri – David Lynch. Mulholland Drive

Autore : Luca Malavasi Titolo : David Lynch. Mulholland Drive Editore : Lindau Collana : Universale Film Anno : 2008 Dati : 240 pp, tascabile formato 13,5x19, brossura, 32 fotografie b/n fuori testo Prezzo : 18,50 € web info : Scheda del libro sul sito della Lindau
È un punto di inizio e un trascinante sviluppo attorno a una delle opere cardine del cinema contemporaneo, questa interessante, completa e complessa monografia scritta dal giovane docente e studioso Luca Malavasi, pagine dense che assumono una caratteristica di necessità all’interno della critica cinematografica italiana, una sintesi e un continuo rilancio per i sempre più frequenti studi lynchiani e buon viatico per chiunque voglia addentrarsi nell’arte di uno dei pochi autori che possa fregiarsi del titolo di inventore del cinema. Il libro è un’analisi e un incastro di rimandi a pensieri e letture intorno a un’opera mondo che è regno di una pluralità che la rende « un classico testo aperto (o forse, e meglio, non chiudibile) », una pellicola che fa della poetica del mistero e della duplicità la sua ragione di vita, una sfida per i suoi lettori e per la nozione stessa di interpretazione di un prodotto artistico. Perché David Lynch è l’alterità stessa all’interno dell’arte cinematografica. Una differenza che attraversa inter(n)amente il suo cinema e che chiaramente si fa spazio fra le pagine di Malavasi, fin dall’introduzione, poiché « Altro, del resto, è il percorso che avvicina Lynch al cinema : mentre i movie brats della Hollywood Renaissance vi arrivano in modo più lineare e coerente, armati di un’enciclopedia cinefila e con la consapevolezza anche teorica [...], Lynch [...] comincia come disegnatore e pittore, sviluppando solo più tardi un interesse specifico per l’arte in movimento – quando il movimento, quasi per caso, soffierà sulla pittura, facendogli desiderare il cinema ». Un percorso che nel 2001 è giunto sulle colline che dominano Los Angeles, fino a Mulholland Drive : un mondo ’dreamlike’ lucido e razionale che sbeffeggia il metodo indiziario, ma che non può vedere la sua complessità ridotta da una mera contemplazione senza interpretazione per un film segnato da un racconto che assume la forma di un ’surrealismo lynchiano’ (che per dirla tutta, però, mantiene una fragile relazione con il surrealismo propriamente detto), un racconto indebolito che porta alla mente Francis Bacon, per certi suoi polittici senza sintassi. Mentre Il mago di Oz, già omaggiato in Cuore selvaggio, è un classico film d’avventura onirica che qui offre soprattutto « l’impianto generale di una classica vicenda tra mondi, che Lynch passa poi a decostruire, insistendo soprattutto sui margini », struttura ordinata che « si dissolve a poco a poco, senza smarrirsi del tutto », rivelando sia la ricchezza e la minaccia di un « immaginario che ha storicamente contribuito a dare forma al reale », per creare alfine un balbettio disordinato, ma certamente non illogico, pre-grammaticale piuttosto. Laddove Lynch in un certo senso è un autore manierista che « non sovverte mai completamente l’ordine costituito ma lo lavora », sostituendo alla tipica sequenza realtà / non realtà / realtà una coraggiosa struttura duale e incerta, che rende il suo film un lungo sogno, senza alcun interesse nel ricomporre la frattura che ha aperto, mostrando nuovamente l’unicità del suo autore all’interno dello stesso panorama contemporaneo. Ma Lynch mette in scena anche una ’morality play’ che nella trama presenta punti di contatto con Palcoscenico di Gregory LaCava (citato anche attraverso la presenza di Ann Miller, ossia Coco, che ricopre ruoli secondari in entrambe le pellicole), film del 1937, l’age d’or ed epoca classica hollywoodiana, pre-testo per un autore in vena di stilettate contro i produttori statunitensi (mentre Malavasi ben evidenzia i problemi incontrati da Lynch con i dirigenti della ABC, che hanno causato la trasmigrazione nella forse più comoda sala cinematografica di un progetto inizialmente pensato per la televisione). Hollywood, ossia il Sogno per eccellenza, dove il sogno che è proprio del cinema ha potuto trovare il terreno più adatto nel quale lussureggiare, mostrando la cancrena che si cela al di sotto di una superficie che offusca la realtà. Perché la Mulholland Drive del titolo è un Viale del tramonto percorso dalla caduta di un corpo già caduto, che forse non si è ancora accorto di essere ormai putrefatto. Mentre Lynch, attraverso il suo classicismo aberrante « fondato su un impasto passionale di perturbante, mistery e horror », si confronta con i codici della tradizione che tra le sue mani diventano macerie e « testimonianza di un rapporto ormai incrinato tra l’immagine cinematografica e la società americana », restituzione dell’instabilità dei segni, per « il più realista dei registi contemporanei » che, al pari di Don DeLillo, si interroga sullo statuto di realtà del mondo circostante. La doppiezza rivelata spalanca le contraddizioni del mondo, come sta a dimostrare la Laura Palmer sulla quale si specchia Bob in Fuoco cammina con me, dove – viene qui da riflettere - la ’Red Room’ letta al contrario diviene un ’Murder’, la parola che il Danny di Shining aveva già scritto sulla porta di una camera da letto dell’Overlook Hotel, parola che si manifesta se letta in uno specchio, in un film che ha come punto centrale il caos cosmico e la violenza della / nella mente, una stanza che in Lynch assume il colore rosso, lo stesso colore col quale, secondo il Bergman di Sussurri e grida, è stata dipinta l’anima. È di certo una lettura stimolante, questo lavoro di Malavasi, perché spazza via svariate apparenze su una pietra miliare della settima arte : a tratti difficile, richiede una certa attenzione e pazienza – meritandosele tutte – nel dover tornare indietro sui sentieri che si credeva essere già stati tracciati da un pensiero stabile, tragitto alla fine del quale si può trovare una ricompensa che solo certe fatiche possono rendere così dolce. Però bisogna aggiungere che al tutto avrebbe giovato una maggiore stringatezza e una migliore organizzazione della materia trattata, per un percorso che sarebbe potuto essere restituito in maniera più fluida. Ultimo appunto su un particolare, piccolo ma non minuscolo, è da muovere contro la scelta di aver sistemato fuori testo le riproduzioni di alcuni fotogrammi che vengono richiamati lungo l’analisi : trentadue fotografie virate in un bianco e nero non particolarmente allettante, immagini alquanto grandi che però sarebbe stato meglio ritrovare dentro il testo, di certo in un formato più piccolo, ma di sicuro di maggiore utilità, al fine di non distrarre la mente e l’occhio dall’effluvio di pensieri che si agitano fra le dita, inquieti ma generosamente proficui.