Lode a te, vecchio Clint

Non amo il concetto di spoiler, ma in questo caso farò un'eccezione. Se non avete ancora visto Gran Torino, non leggete questa recensione. Contiene delle anticipazioni, e il film è di quelli che vanno apprezzati al buio.Vi basti sapere che siamo di fronte a un capolavoro autentico.Finora non era mai morto, Clint. Morente, sconfitto: non morto. Mai. Certo, ne I ponti di Madison County si raccontava la sua storia al passato, quando né lui né Meryl Streep c'erano più, ma era una cosa diversa. E anche in Honkytonk Man se ne andava lui (malato sin da inizio film), non la sua musica. Ne Gli Spietati era già vecchio, ma alla fine vinceva. In Debito di sangue era malato, ma vinceva. In Potere assoluto si opponeva addirittura al Presidente degli Stati Uniti, ma vinceva. E in Million Dollar Baby, che ha molti punti di contatto con Gran Torino, piangeva e piangevi: ma ad andarsene era l'erede. E lui, il passato? Spendeva gli ultimi giorni in un bar imprecisato, lontano dal mondo. Ma vivo.Chiunque lo segue da sempre, sapeva che ci sarebbe stato un giorno in cui Clint avrebbe ritenuto maturo il tempo per mostrarsi definitivamente sconfitto. Eccoci. Gran Torino è un capolavoro, ma non è solo questo: è un testamento. Il testamento di Clint, uno degli ultimi eroi, uno dei più grandi registi (e delle più grandi "facce": altro che "due sole espressioni") di sempre.Non ci saranno più prove attoriali (registiche sì) per Eastwood, ed è giusto - per quanto doloroso - così. Solo i grandi indovinano l'ultimo passo, e questa non è solo un'opera ispirata: è la quintessenza del cinema.Ieri erano altri a sacrificarsi: Morgan Freeman ne Gli spietati, Tommy Lee Jones in Space Cowboys. Forest Whitaker in Bird. I soldati, (quasi) tutti, giapponesi e americani, nel memorabile dittico Flags of our fathers/Letters from Iwo Jiva.Adesso è il tempo di Clint, del polacco reduce di Corea, di Walt. O forse non è più il suo tempo, troppo fuori sincrono, ed allora è giusto uscire di scena. Con un sacrificio, con un martirio quasi biblico (la preghiera sussurrata, il consegnarsi all'ultimo calvario senza colpo ferire). Perché è questa la vera evoluzione del film: la dinamica dell'eroismo. Del sacrificio. Ieri attivo, oggi passivo. Ieri giustiziere, oggi giustiziato.Che pulizia, che radiografia impietosa, Gran Torino. I cineasti inutilmente narcisi e i cinefili col culto della nicchia vadano a scodinzolare altrove: questo è Cinema. Questa è Perfezione. Stilistica, narrativa. Di film così ne escono ogni dieci anni (forse).Clint non ci mette nulla a creare, ormai fa un film ogni dieci mesi. E non lo sbaglia mai. Un solo ciak, storie lineari e quasi "banali" nel loro dipanarsi. I grandi registi fanno sempre lo stesso film, e così anche Eastwood. Gran Torino è per certi aspetti "Matrice Callaghan", "Matrice Leone", "Matrice Spietati": un eroe/antieroe solitario e burbero, cinico e sboccato, all'apparenza respingente e in realtà unico (o quasi) salvo in un mondo di ipocriti, che nella sua strada incontra un'ingiustizia. Ed è lì, quasi suo malgrado, che si erge a salvatore. Non tanto di sé, quanto dei pochi redenti del gregge.
Tutto questo è Gran Torino. C'è anche qui, come in Mystic River e Million Dollar Baby, la riflessione - sotto forma di dialogo continuo con il giovane prete irlandese - sulla religione. C'è l'amicizia virile (il barbiere italiano), l'eco della guerra (di Corea), i ricordi che non concedono lenimenti. E c'è il solito sguardo "di destra" nei confronti della multirazzialità. Un approccio spietatamente sincero, che parte da preconcetti per i quali ogni orientale è un "muso giallo", salvo poi scoprire che "ho più punti in comune con questa gente che con i miei figli". Uno straordinario insegnamento, quasi eversivo, ancor più di questi tempi, che sbriciola in un colpo solo tanto i rigurgiti razzisti (sempre in voga in Italia) quanto l'idiota tolleranza tout court cara ai retori di sinistra. Quegli stessi retori che, vent'anni fa, bollavano Eastwood come "non guardabile" perché incarnava la giustizia fai-da-te e aveva fatto il sindaco reaganiano: quanta ottusità fedele alla linea, grigi compagni del Pd.Gran Torino è il the rising di Eastwood: lo yes we can (ma anche we can't) del vecchio Clint.Gran Torino è un film che devasta l'anima e irradia il cuore. Amplifica la conferma che la redenzione appartiene (e neanche sempre) al mondo dei nonni. A chi è in dissolvenza. A chi ha già vissuto, e non per questo è stanco della vita. Le generazioni successive hanno perso. I figli, insensibili e vacui. I nipoti, sepolti sotto una coltre di insensibilità e frivolezza.Eastwood viviseziona i suoi personaggi con una sola inquadratura: il nipote che fa il simpatico al funerale della nonna, la nipote-con-telefonino che spera nella morte del nonno per ereditarne la Gran Torino. Le bande di quartiere, che "al tempo della guerra di Corea vi avremmo usato come caccole e attaccato al muro". I figli che non trovano il tempo per i genitori anziani, che li vorrebbero relegare - col consenso della solita nuora insopportabile - in ospizio.E' un film che si apre e chiude con due funerali: difficile chiedere un testamento più esplicito (e struggente). Eastwood fa cinema col niente. Rende epico il quotidiano. E mostra tutta la pochezza del presente. Un presente irrimediabilmente compromesso. Eppure è dal letame che nascono i fiori, e a sbocciare è chi non ti aspetti: l'adolescente insicuro "Tardo", la ragazzina Hmong. Ed è per loro che vale la pena sacrificarsi.
Ci sono istantanee che non dimenticherai mai. Il Noodles che dice "Sono andato a letto presto". Monty Brogan che cammina col cane. Lo sguardo di Carlito Brigante sulla barella. Di Gran Torino non sarà possibile dimenticare nulla. Le sigarette, le birre, la tosse. Il labrador Daisy. Le lacrime al buio. Le battute al vetriolo. Quel suo ultimo cadere a terra. Il mondo di Eastwood è forse l'ultimo adulto in cui si sbaglia da professionisti. L'ultimo in cui si muore, perché si vuole o anche solo si deve, da eroe.Sia lode a te, vecchio Clint. Alla tua grandezza, alla tua lucidità rugosa. Al tuo intatto candore.