Valeria Golino, ostinazione e talento

di Goffredo Fofi
IlFestival del cinema europeo di Lecce che si svolge dal 31 marzo al 5 aprile mi chiese due o tre anni fa di scrivere su Lucia Bosè per un libro sull'attrice e, soddisfatti del risultato, mi hanno chiesto mesi fa di contribuire anche alla rassegna che preparavano su Valeria Golino. Ma questa volta non sono stati soddisfatti del mio articolo, e me lo lo hanno respinto giudicandolo troppo critico mentre io pensavo di avere esagerato nella direzione contraria! Continuando a considerare la Golino come la nostra migliore attrice cinematografica, tengo a far conoscere questo testo ai lettori del Messaggero, lasciando che siano loro a giudicare dell'attendibilità o meno delle mie opinioni e di questo curioso caso di censura, comprensibile soltanto se si pensa che tanti intendono oggi il lavoro del critico come informazione o propaganda e come spaccio di elogi superlativi per tutti.
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Sembra, nel cinema italiano contemporaneo, che il tempo si sia fermato nei primi anni ottanta e non si sia più rimesso in moto: un eterno presente senza storia, senza passato, senza futuro. “Datare” un film a questo o a quell’anno è diventato, nella mia memoria ma mi pare in quella di tutti, un’impresa quasi impossibile, soprattutto se non è legato a qualche accadimento che ricordiamo come importante: quella volta che mi successe questo o quest’altro, che X mi ha lasciato o che mi sono messo con K, l’anno delle Due Torri, l’anno di Berlusconi, l’anno di Prodi… Di per sé, un film non richiama più un’epoca, non segna un qualche passaggio mentre un tempo era facilissimo collocarlo, prima o dopo un altro titolo. Tutto cambia in continuazione eppure nei nostri film niente cambia, tantomeno il loro linguaggio. Sembrano tutti sotto una campana di vetro, gli autori e i personaggi dei nostri film, e letteralmente non respirano. C’era un’evoluzione del costume, e c’era, a certificarcelo, un’evoluzione dei modi di raccontare e dei personaggi centrali. Poi si è assistito a un lungo e noioso crepuscolo per quella che fu l’arte del secolo (il Novecento), in cui si concentrarono i sogni, le illusioni, le speranze, le fantasie dei popoli del mondo. Possiamo datare gli anni d’oro di questa peculiare forma di spettacolo del Novecento – come fenomeno della cultura di massa, come trasferimento della cultura popolare in quella “dell’epoca della riproduzione tecnica” delle opere – e sono quelli che vanno dalla fine della prima guerra mondiale agli anni di restaurazione che seguirono ai movimenti e alle lotte degli anni sessanta, sconfitti dentro i settanta. (Una “vera storia” del cinema italiano cominciò però soltanto con il sonoro e con le prime opere di Camerini e Blasetti.) Dalla fine dei settanta, dai primi anni ottanta in Occidente bastò al potere, per poter governare, di manipolare le coscienze con tutto il peso del consumo e soprattutto con quello del consenso e delle sue imposizioni “pubblicitarie”. L’autonomia sociale della produzione cinematografica e più in generale della cultura di massa, la loro rispondenza alle domande e ai bisogni di una collettività, la sua “democrazia” svanirono. Non c’era più la possibilità di un dialogo tra un pubblico e la sua arte, di una “comunicazione”: il pubblico doveva soltanto venir coperto da offerte teleguidate, prevedibili e omologate. Il cinema offrì da allora – risucchiati i generi dalla televisione – soltanto effetti speciali oppure blande storielle sentimentali: comuni, ovvie, miserabili. Guardiamo al cinema italiano in particolare. Esso aveva abbandonato ogni ambizione al superspettacolo e, dopo la morte dell’ultimo suo grande, allo sbalordimento; vi erano malinconicamente silenti Antonioni Lattuada Comencini; erano logorati dal burocratismo partitico-sindacale e non avevano niente dell’autore con la maiuscola gli Scola e i Maselli con la loro generazione di finti impegnati “di sinistra”; vi erano ambiziosamente solitari ma scontando l’incapacità di capire il tempo in cui agivano e di parlare per i molti, i Bellocchio e i Bertolucci, più frenetico e approssimativo nelle sue idee il primo, più cauto ma più estenuato il secondo; ed erano sprofondati nelle astuzie del narcisismo i Moretti e i Benigni; e presto recuperati nelle pastoie di Roma gli autori partiti dalla provincia e dal margine, perché le leggi del cinema erano romane e corporative e bruciavano ogni ansia federalistica e ogni impulso nuovo venuto dalle cosiddette periferie – e sarebbe stata questa una possibile via d’uscita creativa, per quanto transitoria, alla crisi delle ispirazioni, delle idee. E non essendoci infine personalità creative eccelse, come ce ne sono peraltro poche nel mondo (i nomi? Cronenberg e Lynch, Kaurismaki e Tsai Ming Liang, e meno di una dozzina d’altri di sicura tenuta), se si escludono per un certo arco di anni i nomi Amelio e, fuori dal “sistema” ufficiale, quelli dei geniali e non reggimentabili Ciprì e Maresco, si rimaneva con le caute speranze di qualche “nuovo” (come Garrone, Munzi, Mereu, pochi altri) ben sapendo che avrebbero avuto vita difficile in un “mondo del cinema” e in una paese-Italia scoppiati e confusi, ipocriti e amorali e ruffiane, e il cinema in particolare privato d’ogni vera necessità. In questo quadro nero o quantomeno assai grigio, cosa rimaneva da fare, per un’attrice volenterosa, appassionata, disponibile, intelligente e veramente dotata come Valeria Goliono? Cogliere le occasioni, arrabattarsi, fare il possibile, lavorare il più possibile, e per lavorare non dire no a quasi nessuno… Azzardare – in una continua rimessa in discussione non delle proprie potenzialità espressive ma della loro possibile messa a frutto. Di rischi ella ne ha corsi tanti, di risultati di cui gloriarsi non ne ha allineati tantissimi ma pure ce ne sono: i suoi tonfi li ha fatti e sofferti, ma alla fine la sua scommessa l’ha vinta, e continua anzi a vincerla. E allora: una partecipazione poco straordinaria qua e un ruolo da protagonista là, un film velleitario qua e un film riuscito là, i film si sono ammucchiati, spesso assomigliati e confusi. Perlopiù non hanno fatto e non fanno Storia, ma sono tanti, e la prestazione professionale della nostra attrice vi è stata, in genere, più che decorosa e a volte pienamente soddisfacente. Salvo, si direbbe, quando la convinzione e l’entusiasmo, dopo qualche giorno di lavorazione, se ne scendevano a zero. Ma come si fa a distinguere prima, sulla carta o anche sulla conoscenza diretta di un regista che magari parla e si presenta bene e si rivela poi uno sbruffone, quale ruolo e quale film val la pena di accettare e quale no, su quale ruolo puntare davvero tutte le proprie carte, le proprie energie? Non si vuole infierire, e dunque non si elencheranno della quarantina di lungometraggi girati da Valeria Golino in poco più di vent’anni quei titoli veramente dimenticabili, o addirittura imbecilli, siano essi nazionali o internazionali. Formano una parte consistente della sua filmografia, ma non è per quelli che Valeria Golino viene e verrà ricordata dagli spettatori e da noi. E’ per quelli non eccelsi ma spesso decorosi (gli autori? Del Monte, Archibugi, Campiotti, Ozpetek, Paravidino eccetera) che fanno parte di una poco variata ninna-nanna sentimentale e buonistica, pseudorealistica del cinema nazionale di maggior voga – film “senza Storia” per la fissità e noia dei problemi che la piccola borghesia benestante occidentale e in particolare italica in essi deve affrontare: la famiglia, la coppia, il cancro, il precariato, i soldi, i più ricchi di noi, la fine delle amicizie e delle illusioni di gioventù, la confusione sessuale, i figli, gli immigrati, la politica (non oltre il quartiere), e quando va proprio male la droga, soprattutto la droga se si elencano le volte che Valeria Golino ha dovuto averci a che fare nei film in cui ha recitato… In questo cinema mai si allarga e mai si scava, sembra anzi che farlo sia vietato. Non ci si ferma a pensare molto a lungo, nel cinema italiano. E si racconta allo stesso modo da decenni, seguendo osceni manualetti di sceneggiatura paratelevisivi e americani o gli insegnamenti paratelevisivi del Centro Sperimentale di Cinematografia, che andrebbe onestamente ribattezzato Centro Antisperimentale di Preparazione alla Fiction Televisiva. Parliamo dunque dei film – o meglio: delle interpretazioni più notevoli di Valeria Golino, e distinguiamo tra loro, lodando solo quando c’è da lodare. Elenco dunque quelle che io considero le sue prestazioni più esemplari, per soffermarmi sulle migliori. E confesso senza vergogna di non aver visto tutti i suoi film. La scoprii e mi piacque in Figlio mio, infinitamente caro (Orsini 1985), in un ruolo sgradevole se mai ve ne furono, di mezza-puttana divisa tra un padre, un figlio e, se ben ricordo, di già la droga… Non mi piacque affatto in Storia d’amore di Maselli, due anni dopo: eccessiva, magnanesca, mal diretta. (E mi irritò sentirle dire in televisione in una delle solite spompate feste di famiglia del cinema romano Dèvid invece che David: tornava fresca dagli Usa).Se la cavò bene in Paura e amore, moscio adattamento cechoviano della fiacca von Trotta, a fianco della Ardant e di Greta Scacchi, ma il film addormentava. Fu pessima e falsa come tutti i suoi colleghi nel pessimo e falso Puerto Escondido di Salvatores. Fu sveglia e commossa nel piccolo melò di famiglia di Campiotti Come due coccodrilli. Fu ottima, convincente perché convinta, in Le acrobate di Soldini, dove divise con Licia Maglietta la piccola gloria di due bei ruoli femminili (è una collega bella e brava come lei, Licia Maglietta, che nel film era la donna borghese) infine credibili e non da letteratura neo-rosa alla moda femminile. Vi fu proletaria e tarantina senza coloriture e senza ricatti, vi fu bella e commovente. L’anno dopo (1998) eccola in L’albero delle pere di Francesca Archibugi, ancora drogata ma stavolta con un figlio – e cominciò qui la sua avventura di attrice che ha avuto partner bambini o adolescenti più bravi e in ruoli più veri dei suoi colleghi adulti… E dello stesso anno è un film sfortunato e rigoroso, un film di vera regia, L’inverno di Nina Di Majo, una triste partita a quattro tra borghesi infelici. Anche qui aveva a fianco un’attrice assai brava, Valeria Bruni Tedeschi, in una delicata interpretazione sottotono, nel ruolo di una insicura e nevrotica donna di oggi e proprio di oggi, a quasi mezzo secolo dalla trilogia di Antonioni. Si passa infine, con molti salti, trascurando film e ruoli di buona professionalità ma di sostanza povera, alla sua interpretazione più celebrata e sinora, forse, la migliore, in Respiro di Crialese (2002), sintesi e summa delle sue qualità ma anche con qualcosa di pericoloso nella definizione di un personaggio dal sottile discrimine tra accettazione e rivolta, o meglio: follia. E’ con Crialese e nel successivo La guerra di Mario di Antonio Capuano, in un ruolo simile e opposto – simile per il racconto delle difficoltà nell’assunzione di responsabilità di una madre o di una che vuol essere madre, che entrano in conflitto con le responsabilità o i doveri, anche presunti, della moglie – che Valeria Golino ha dato la misura delle sue capacità di attrice ormai pienamente e splendidamente “adulta”: unica nel panorama nazionale in mezzo a tante bellone di cera e silicone, rimasticate e rifatte, incapaci di partecipazione e di azione, pseudoborghesi o pseudopopolane ma ugualmente piccoloborghesi, e a tante frigide madamine che reprimono ahinoi la loro vena di isteria, e a giovani veline capaci di tutto fuorché di mettere a frutto dei talenti nascosti, di quelli che la provvidenza elargisce a caso a ognuno, invece che le loro effimere doti fisiche. In altri tempi, in altri contesti, Valeria Golino sarebbe diventata un’attrice di più grandi chances, ma questo non è più tempo di Dive e neanche di Attrici. Che ella sia riuscita a difendere una sua figura di attrice vera, generosa e sensibile, e a darci ottime interpretazioni nei pochi bei ruoli offerti alle attrici in questi anni dominati da maschi innamorati solo di sé, è un merito davvero grande. Che sia da tempo la nostra migliore attrice è un suo risultato, una sua conquista. Che abbia saputo imporre un personaggio femminile fatto di inquieto rifiuto dei luoghi comuni e di insoddisfatta volontà di essere vera, in un mondo dove è il falso a regnare e alla donna toccano, peggio di ieri, ruoli chiusi e falsi nella vita come nella finzione, ruoli pesanti e castranti e dai quali è difficilissimo uscire, tutto questo è un merito soprattutto suo. E qui stanno la sua originalità e la sua bellezza. Tutto questo Valeria Golino non lo deve, oso dire, né ai cineasti che l’hanno cercata né al pubblico che l’ha seguita (forse senza mai davvero amarla, tanto poco ha concesso ai pregiudizi e alle richieste di consolazioni facili e sciocche), né tanto meno alla critica. Non basta essere bravi, in questo nostro cinema, in questo nostro contesto; bisogna anche essere molto esigenti verso se stessi e verso gli altri, e persuasi e rispettosi del proprio talento e delle proprie possibilità. Valeria Golino deve tutto alla propria ostinazione e al rispetto, rarissimo, per i propri talenti e per la professione che si è scelta, per la quale si è sentita chiamata.
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