Dai che quasi ci siamo. Se non è già morto, il rap è per lo meno in sala di rianimazione e da lì chissà come uscirà. Guardatevi intorno. Ormai i rapper sono replicanti ricoperti di catene d’oro e di slogan più vuoti di una canzone della Pussycat Dolls. Parlano, ma nessuno li ascolta davvero. Provano a scatramarsi dai loro cliché ma non riescono a richiamare vera attenzione. Per carità, in questo momento il 20 per cento della top ten americana è occupata da rappers (UKG e Flo Rida) e le radio trasmettono i loro brani. Insomma, c’è ancora un forte consenso popolare e le vendite discografiche, pur essendo in drastica diminuzione, sono ancora soddisfacenti. Però è finita la corsa. E’ finita la carica innovativa di questo tipo di musica. Ricordate quando arrivò il rap sul grande mercato all’inizio dei Novanta?? Boom. Lì c’era vita, c’erano messaggi importanti, c’erano argomenti di cui non si era mai parlato così apertamente (il ghetto, l’emarginazione e le disparità razziali), c’era lo slancio incontenibile di chi finalmente riusciva a parlare al mondo usando la propria lingua, lo slang, e dandole dignità quasi letteraria. Un successo clamoroso, non solo nella musica, ma anche nella moda, nei costumi, nella politica, nelle relazioni sociali. In quel momento c’era grunge, c’erano i Nirvana, gli Stone Temple Pilots, i Pearl Jam, gli Alice in Chains. Bene, buttati via in un minuto. Il rap spazzò via tutto, riposizionando il mercato con una virulenza difficilmente comparabile ad altri fenomeni. E adesso? Adesso quella fase è finita, e c’è chi dice per fortuna. Le componenti più estreme della poetica rap (il gangsta, per esempio) sono invecchiate precocemente. Invece gli ingredienti ancora vitali sono stati lentamente assorbiti dal resto della musica, che fortunatamente ha fatto proprie le istanze razziali, lo sguardo alle diversità sociali, il bisogno disperato di agglomerazione creativa. Perciò i rapper sono rimasti senza lavoro, in senso figurato. A loro è accaduto più o meno (e absit iniuria verbis) ciò che in politica accadde ai verdi, portatori di principi per lo più validi e importanti che però sono lentamente entrati nei programmi di tutti gli altri partiti politici. Oppure sono spariti. Il freschissimo ritorno di Eminem ne è un esempio. Quando apparve, era una bomba: violentissimo, bianco, misogino, impunito. Adesso leggete il testo sciapo del suo nuovo singolo We made you e soprattutto guardate il video del suo nuovo singolo (da lunedì 13 in anteprima su tutti i canali Mtv e mtv.it) in cui prende di mira non un mondo, un’idea, un’ingiustizia. No. Prende in giro il culone di Jessica Simpson, il rossetto sbavato di Amy Winehouse, la ciccia golosa di Britney Spears, il look incomprensibile di Lindsay Lohan. Sghignazza addirittura (e questo solo per garantirsi maliziosamente l’applauso radical chic) su quella poveretta di Sarah Palin, una politica che mediaticamente è morta il 4 novembre e adesso è più innocua di una thé delle cinque. Insomma, Eminem prende in giro lo stesso mondo che prendeva in giro dieci anni fa, senza rendersi conto che la realtà è cambiata, che le cose da criticare adesso sono diverse, che gli equilibri sociali, politici, addirittura ambientali sono lontani anni luce da quelli degli anni Novanta. Insomma, adesso Eminem dice le stesse cose che potreste leggere su perezhilton.com. Che noia. Dov’è la novità?? Dov’è la violenza dirompente che uno come lui è tenuto ad avere come ragione sociale?? Eminem è diventato come il Bagaglino, pacioso e rassicurante come un sabato sera su Canale 5.E anche in Italia capita lo stesso. Fatta eccezione per autentici talenti come Fabri Fibra, che è un cronista musicale capace di andare oltre la semplice distinzione di genere, il resto si è cabarettizato oppure ha perso efficacia (qualcuno mi dia notizie di Mondo Marcio). Sono i tempi. E’ naturale che succeda ed è anche naturale che per un po’ segua la stessa strada di tutte le musiche in via di estinzione: molta ripetitività, qualche colpo di coda, primi timidi revival. Rimane però il fatto che nulla sarà più come prima e che il prossimo grido di libertà, il prossimo grido innovativo stavolta arriverà da una parte del mondo che non ci aspettiamo davvero.
