Cannes: ''Una spina nel cuore'', Michel Gondry cambia genere

Vito Lamberti
“Una Spina nel Cuore”, s’intitola così il nuovo lavoro del regista francese Michel Gondry, presentato fuori concorso a Cannes - un documentario dedicato a sua zia Suzette, insegnante di scuola dal 1952 al 1986 - che ha sorpreso perché presenta Gondry sotto una nuova veste. Più intimo e realista, Gondry mette da parte il suo lato visionario e onirico, e per sua Spina del Cuore si avvale di una regia asciutta e toccanteAmatissimo dai giovani, soprattutto dalla generazione che era adolescente negli anni novanta, Michel si è formato registicamente firmando i videoclip di noti cantanti pop e rock. Celebri le sue collaborazioni con Björk (la cantante islandese deve molto a Gondry soprattutto per come è riuscito a creare un’estetica molto personale dei suoi videoclip) , i Massive Attack , Lenny Kravitz e Sinead O’Connor. Il grande successo con "Se mi lasci..."
Dopo il cortometraggio la Lettera del 1998, filma il suo primo lungometraggio, Human Nature del 2001. Il grande successo arriva con "Se mi lasci ti cancello" (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), con Kate Winslet e Jim Carrey, che gli vale due nomination all’Oscar e quattro ai Golden Globe. Ecco quello che ci ha detto quando lo abbiamo incontrato. E’ la tua terza volta al Festival di Cannes. Quali sono le tue prime impressioni?Ad essere sincero non amo molto questa parte del Sud della Francia. Il lato fashion di queste manifestazioni m’innervosisce. Ma il fatto di essere stato invitato per questo film è molto importante. Un’enorme sorpresa che mi tocca profondamente. Considera che, quando mi hanno contattato da Cannes, avevo finito il secondo montaggio del documentario da appena una settimana. Nel film c’è una doppia lettura, sembra quasi che i film siano due…E’ vero. Da una parte ho seguito il percorso della carriera di mia zia come insegnante e, dall’altra il film, quasi involontariamente, devia per una pista più intima e familiare dolorosa. Suzette ha 82 anni, è una donna che possiede un’enorme memoria e soprattutto mi ha raccontato tante storie. Lo scopo del mio documentario era quello di permettere alla sua storia di lasciare una traccia: in modo che diventasse la storia di tutti e non solo quella di mia zia. Ho trascorso con lei quattro estati e un inverno, durante i quali ho intervistato sia lei che i suoi figli. Col passare del tempo, mi sono reso conto che la sua storia come insegnante nelle zone rurali della Francia coincideva molto con l’educazione che aveva dato ai figli: ecco perché le storie sono diventate due. Solo che il suo privato, come vedrete nel film, è molto doloroso, e non volevo che risultasse patetico alla spettatore. Intrecciando le due storie, ho evitato questo pericolo.Ti muovi con disinvoltura dai film onirici al documentario realista, come mai questo cambio di rotta così radicale?Non è un cambio di rotta. Il mio approccio artistico resta lo stesso. Mi lascio sempre degli spazi incerti e una strada libera che posso prendere in qualsiasi momento. Non mi piace lavorare sapendo che devo rimanere chiuso nel recinto di un genere cinematografico. Infatti, proprio lavorando così, ho scoperto che il documentario aveva il potenziale per una seconda storia al suo interno. E poi il mio modo di fare cinema, nonché parte del mio immaginario (anche quello onirico che appare in mlti miei film), nasce proprio dal tempo che io ho trascorso con mia zia alla quale sono legato in modo particolare da sempre. Spero di averle reso omaggio. E’ vero che dirigerai un blockbuster americano tratto dalla serie televisiva Il Calabrone Verde (serie Usa americana trasmessa per una stagione dal 1967 al 1968, che ha dato fama a Bruce Lee, che combatteva contro il crimine e la mafia).Si è vero, e sono molto eccitato. Le Frelon Vert era una seria televisiva che aveva anticipato i tempi e per questo fu mandata in onda solo un anno. Pensa, hanno preferito sostituirla con Batman (ride), una vera tragedia!