"Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust" dei Sigur Ros

Il ronzio di un deserto pieno di sogni e colori

di Emanuele Rauco
Se pensiamo a musica che viene dal profondo nord europeo, dalla Scandinavia o simili, o vengono in mente gli Abba o i gruppi seminali del black metal; e se poi nominiamo l’Islanda l’unico nome ad affacciarsi alla nostra testa è quello di Bjork. Più vicini alla seconda che ai primi, i Sigu Ròs sono la migliore e più efficace rappresentazione dei suoni e del mood nordico, specie di un’isola ai confini del mondo come quella islandese. Giunta al quinto album, la band capitanata da Jón Þór Birgisson continua nel suo viaggio attraverso la sperimentazione e i suoni, seguendo quel magnifico percorso che, partendo da una certa musica seria e strumentale e passando per il rock e il pop, riesce a combinare una musica raffinata e coltissima con inusitate vette passionali ed emotive che li rendono uno dei complessi più importanti dei nostri giorni. Rispetto ai precedenti lavori, tra cui un’opera enorme come (), prosegue il lavoro di rilettura e auto-riflessione sul senso e l’essenza della loro musica, che partita dall’ambient acustico di Von o Ágætis byrjun, è divenuta una straordinaria messe di suoni e sensazioni, non solo musicali, che rilegge il concetto stesso di musica indipendente o alternativa: fin dal titolo (Con un ronzio nelle nostre orecchie suoniamo senza fine), non solo si mettono subito in un campo “metalinguistica”, ma descrivono anche in un certo senso la loro musica, capace di rileggere il muro del suono di Phil Spector attraverso la costruzione di architetture sonore e compositive che oltrepassano la forma canzone per avvicinarsi a una sorta di sonata contemporanea, un rito ipnotico in cui le tastiere, le chitarre (che in questo disco sorpassano l’uso degli archi, visto anche l’uso dell’arco per suonarle), lo xilofono si connettono con una sezione ritmica corposa e con un’orchestra e un coro interi a creare una sorta di “dream pop” epico e impressionante. Il primo singolo e brano d’apertura del disco, Gobbledigook, dà subito l’idea del impatto e dell’impianto musicale del disco, anche se con un andamento più “giocoso” che i testi in islandese e la voce delicata e tagliente di Jonsi rendono freddo e tagliente, connubio confermato dalla successiva Inní mér syngur vitleysingur, in cui appare ancora più evidente la vena di pop contemporaneo. Le chitarre malinconiche aprono Góðan daginn, espressione del puro sound Sigur Ros, mentre Við spilum endalaust e Með suð í eyrum, doppia title track del disco mostrano perfettamente le due anime della band, da un lato una sorta di magica gioia fanfaresca, dall’altro un riflettersi cupo nella malinconia e nel deserto gelido della terra natia. Segnalazioni a parte meritano le lunghissime Festival e Ára bátur, dove i ritmi lenti, le sonorità ricolme di echi e ripetizioni, le armonie in crescendo sembrano riassumere l’idea stessa della musica del gruppo, e All Alright, primo brano in lingua inglese di una band che, per esigenze musicale ha sempre cantato in dialetto ed ha inventato una lingua nordica (l’hopelandic); un lavoro al tempo stesso più semplice e fruibile, ma più monumentale nell’arrangiamento e nell’uso degli strumenti in cui la straordinaria forza e compattezza di Georg Hólm – basso e xilofono – fa da anima pulsante non solo alla voce e alle uniche chitarre di Jonsi, ma anche agli strumenti classici suonati da Kjartan Sveinsson. Forse la semplificazione – molto relativa – del sound potrebbe sembrare una banalizzazione, ma la capacità compositiva, armonica e strumentale del gruppo fa sì che anche il loro rock filtrato dai venti gelidi sia l’ulteriore esempio di come la grande musica trascenda l’udito e si allarghi a tutti gli altri sensi, quelli non fisici prima di tutto.