De Laurentiis, i novant'anni del grande giocattolaio

FULVIA CAPRARA
ROMA Un ragazzo napoletano di novant’anni, che non ha mai smesso di credere ai sogni, di rialzarsi dopo le cadute, di vivere la vita come a un tavolo da gioco, rischiare, puntare, vincere, perdere. Per Dino De Laurentiis, che oggi festeggia il compleanno (è nato a Torre Annunziata l’8 agosto 1919), il mito americano del self made man è un intreccio speciale di fiuto e fortuna, drammi e casualità, fatica e riflettori. Una sceneggiata in grande stile, nel primo atto il protagonista vende la pasta dell’azienda del padre, nell’ultimo è un tycoon hollywoodiano, abituato a discutere con le stelle più scintillanti del cinema mondiale. In mezzo succede di tutto, c’è il dopoguerra, la rinascita, il neorealismo, i matrimoni, la tragedia della perdita del figlio Federico (nell’ 81, in un incidente aereo in Alaska), i premi, i flop, i successi leggendari. Eppure lui, il divo, sanguigno, verace, imperterrito nell’accento partenopeo, anche dopo anni di vita in inglese, è sempre al centro della scena, incantatore nato, esattamente come quando, nella Capri appena liberata dagli americani, gli venne in mente di vendere ai soldati Usa il mare della Grotta Azzurra. Un affarone, condiviso con gli amici del tempo, Steno, Longanesi, Soldati, l’unico modo per nutrirsi in quei giorni difficili: «Nessuno può capire che cosa significa, quando sei affamato e finalmente riesci a mangiare, poter dire “anche domani mangerò”. L’avvenire si tinge di rosa».

La memoria dei tempi bui, l’orizzonte della rivincita, la consapevolezza e l’ironia sono la bussola dell’uomo che tuttora teorizza: «Se la vita passa monotona non ha più interesse. Invece gli alti e bassi le danno adrenalina, voglia di ricominciare da capo». Lui, per prima cosa, nel 1937, prende il treno e va a vivere a Roma. Frequenta il Centro Sperimentale, capisce presto che è meglio stare dietro e non davanti la macchina da presa («mi sono guardato allo specchio»), inizia a fare l’ispettore di produzione e, più tardi, nell’Italia risorta dal conflitto, realizza capolavori come Riso amaro, La strada, La grande guerra, Le notti di Cabiria, quest’ultimo segnato dai violenti contrasti con Fellini. Del neo-realismo ha una visione pragmatica: «Giravamo per le strade perchè non avevamo quattrini - spiega nel libro che Tullio Kezich e Alessandra Levantesi gli hanno dedicato -, non avevamo niente: solo idee e entusiasmo. E così abbiamo realizzato film che sono andati ovunque e sono entrati nella storia del cinema». Nel ‘48 Dino si mette in società con Carlo Ponti, titoli come Guardie e ladri e Totò a colori s’intrecciano con le tappe fondamentali della sua esistenza. Dopo il matrimonio con Silvana Mangano, il 17 luglio del ‘49, arrivano i figli, Veronica, Raffaella, Federico e Francesca. Ogni cosa è illuminata dal fervore del tempo, la curiosità dei rotocalchi, i regali fantastici, il cammino parallelo delle stelle perchè quelli sono anche gli anni di Rita Hayworth, di Sofia Loren, di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini. Per Dino l’America è vicina, una terra promessa che lo aspetta a braccia aperte: «Ero pieno di entusiasmo, però mi dicevo: sarò capace di fare film in americano? Chiamai Peter Maass, e chiesi se avesse qualche idea, lui mi disse “sto scrivendo un nuovo romanzo, si chiama Serpico. Lessi solo il primo capitolo, lo richiamai subito e gli dissi che compravo il romanzo alla cieca». Non servono altre parole, con Dino succede spesso, dice un titolo e non c’è bisogno di aggiungere nulla perchè il resto si sa, è già nella storia del cinema. La scelta americana coincide con il tramonto della «Hollywood sul Tevere», una nuova legge, nel 1972, limita i sussidi ai film prodotti in Italia dall’industria Usa, i cineasti statunitensi fanno le valigie, De Laurentiis li segue: «In Italia c’è la carta bollata, devi chiedere il permesso anche per andare al gabinetto. In America si è liberi di fare quello che si vuole». Ovvero tener testa ai registi più diversi, montare imprese titaniche come Bibbia e Guerra e pace, inventare filoni come quello inaugurato dal Giustiziere della notte, digerire flop apocalittici come Dune di David Lynch. Dall’altra parte dell’oceano si può anche, per l’ennesima volta, ricominciare, sposare Martha, conosciuta a New York, in ufficio: «Quel giorno avevo la porta aperta, vedo passare un angelo, rimango imbambolato. “Chi è?” M’informo, scopro che si chiama Martha Schumacher e lavora nel settore amministrativo». Con lei arrivano due figlie, Carolyna e Dina, e poi i riconoscimenti di questa seconda parte di esistenza. Primo fra tutti l’«Irving Thalberg Memorial Award» consegnato, nella notte degli Oscar del 2001, da Anthony Hopkins che, con la saga di Hannibal, rappresenta l’ultima conferma dell’intuito del produttore: «Il cinema - dice De Laurentiis - non finirà mai, è un grandissimo giocattolo nelle mani degli adulti e gli adulti non lo vogliono perdere. Il film è il mondo dei sogni e ogni essere umano ama sognare». http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200908articoli/46212girata.asp