Mitica Leonor Fini, la «diavolessa». Un’artista di visionario talento, in grado di entusiasmare perfino i divi del pop. Nel 1994 Madonna, quando Leonor era ancora viva, si ispirò ai suoi quadri per il suggestivo e coinvolgente video Bedtime story, che un critico definì «autentica celebrazione dell’arte fantastico-visionaria italiana». Ora il Museo Revoltella di Trieste propone fino al 4 ottobre una grande mostra, destinata con le sue duecentocinquanta opere a far conoscere anche al grande pubblico questa straordinaria figura di artista e di donna, in cui il rapporto arte-vita fu strettissimo.
Nacque a Buenos Aires nel 1907 da padre argentino e madre triestina, ma si trasferì prestissimo a Trieste dopo la separazione dei genitori. Qui crebbe in un ambiente ricco di cultura, aperto alle voci della letteratura mitteleuropea, dove vivevano Italo Svevo (che raffigurò in un bel ritratto), Umberto Saba, Giani Stuparich, Bobi Bazlen, Leo Castelli. Tuttavia la sua inquietudine esistenziale e artistica la condusse a soli vent’anni a Milano, dove conobbe artisti del livello di Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Carlo Carrà e Achille Funi, di cui colse le suggestioni classiciste.
Nel 1931 nuovo cambio di vita e di ambiente. Leonor si trasferì a Parigi, cuore della vita artistica internazionale, e subito diventò una star della società culturale e mondana della capitale francese. Dotata di una bellezza inquietante e aggressiva, tanto che Max Ernst la definì «la Furia italiana di Parigi», sottilmente perversa, affascinò - e non solo come artista - un fotografo geniale come Henry Cartier Bresson che la ritrasse in tutto il suo splendore, un raffinato scrittore come André Pieyre de Mandiargues, cui fu più legata, Salvador Dalì, Man Ray, Alberto Giacometti, Magritte, Paul Eluard e Georges Bataille. Regina dei salotti parigini, si presentava mascherata nei modi più imprevedibili. Ora era un gufo, ora una tigre, ora un leone.
Pieyre de Mandiargues la descrisse con «il capo coperto di piume nere e di un diadema di corna, i capelli corvini come le piume di un corvo che ricadevano su una veste che sembrava intessuta di seta e di brace». Nella sua casa, imprevedibile come lei, riceveva gli ospiti completamente nuda nella sua abbagliante bellezza, seguita sempre da un corteo di gatti aristocratici e composti come maggiordomi. I suoi travestimenti suscitavano attorno a lei un’atmosfera di sottile perversione, degna dell’amatissimo Marchese De Sade, ma i loro significati erano più alti. «Travestirsi - scrisse - è un modo per avere la sensazione di cambiare dimensione, specie e spazio. Significa sentirsi giganteschi, diventare vegetali, animali, sino a sentirsi invulnerabili e fuori del tempo, ritrovarsi, oscuramente, in riti dimenticati. Travestirsi è un atto di creatività. È una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé». Questa confessione coglie perfettamente il senso dei soggetti della sua pittura: sfingi regine, sonnambule, bambine insolenti, crudeli e un po’ perverse, streghe, ermafroditi addormentati e perfino scheletri con la parrucca. Le foto fattele da Man Ray, da Cecil Beaton, da Arturo Ghergo e soprattutto da Cartier Bresson, rivelano in Leonor la sua natura camaleontica e sempre inquietante. La critica la definì artista surrealista, ma lei lo era a modo suo e comunque senza l’ideologismo, che riteneva insopportabile, del gruppo.
Splendidi sono negli anni Trenta e Quaranta i ritratti degli artisti che più amava, tanto che Leonor si vantò giustamente di vendere a prezzi più alti di Picasso. Ma la ritrattista che spopolava a Parigi conquistò anche New York, grazie a Peggy Guggenheim che, però, la temeva perché era troppo bella e troppo sicura di sé. La breve permanenza a Roma negli anni della guerra fu invece deludente per il provincialismo dell’ambiente culturale e soprattutto per il suo ideologismo di sinistra, ma qui tuttavia nacque un profondo rapporto di stima e di amicizia con Mario Praz, il grande anglista che sapeva d’arte più di qualsiasi critico.
Ritornata a Parigi, Leonor continuò la sua fervida attività, dominata, soprattutto negli anni Sessanta, da colori opulenti eppure tracciati con colpi di pennello quasi invisibili. Lavorò anche in teatro per i maggiori registi dell’epoca, scrisse romanzi, illustrò in modo indimenticabile le opere complete di Baudelaire e di Edgar Allan Poe, senza mai tralasciare la pittura. Morì a 89 anni il 19 gennaio 1996, dopo una vita che ne aveva fatto un mito del mondo artistico. Un mito che la mostra di Trieste, curata in maniera eccellente da Maria Masau Dan e accompagnata da un imponente e prezioso catalogo edito dal Museo Revoltella, è destinato a rinverdire fra tutti coloro che credono nella necessità dell’arte, quella vera e non i suoi simulacri, oggi spesso vincenti.
Di Giovanni Antonucci
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