Richard Gere compie 60 anni

di GIAN PAOLO POLESINI
Julian Kay, Zack Mayo ed Edward Lewis. Questi tre signori, mai esistiti nella realtà, hanno consegnato la gloria cinematografica eterna a Richard Gere. Il mister di Filadelfia – a trentaquattro anni dal primo film – è a un passo dai sessanta. Li compirà lunedì 31. Sono cifre tonde significative e, in qualche modo, vanno ricordate. Almeno quando chi ci arriva ha lasciato un segno in questo fragile universo. La sua zucca è ricoperta da un affascinante chioma sale e pepe già da un po’. Non per questo Richard si è dimenticato per strada l’orgoglioso appeal, merito del quale il giovanotto di trentuno anni scivola come Julian Kay, di professione American gigolo, dentro l’eleganza Armani. La gavetta finisce qui, con gli indimenticati abbinamenti cravatte-abiti, buttati con nonchalance sul letto per approcciare meglio la preda. Nella celluloide di Paul Schrader, pur virando sul noir, si esalta il macho Gere, diventato negli Ottanta il sex-symbol del pianeta. Eppure recitare non era nei suoi desideri primari, appena diplomato alla North Syracuse High School nel 1967. Il diciannovenne Richard s’iscrive all’Università del Massachiusset, ma pensa alla musica. Suona con agilità pianoforte, chitarra, basso e tromba. L’assolo in Cotton club, 1984, è tutta farina del suo fiato. Qualcosa gli suggerisce di lasciar perdere, e così il destino lo trascina sulla via del teatro. Sarà Danny Zuko in Grease. Prima a Londra, poi a Broadway. Il cinema soffia sul collo e l’esordio è targato 1973 con Rapporto al capo della polizia. A Gere serviranno altri sette anni prima di provare il brivido del successo. Nel frattempo è un soldato in Baby Blue Marine, un cinico e violento individuo nel cupo In cerca di Mr.Goodbar, un operaio accusato di omicidio ne I giorni del cielo, e un sergente nel bellico Yankee. Le ossa, ormai, sembrano solide. Le spalle, pure. Il fisico c’è, lo sguardo anche. Il trionfo di American gigolo lo proietta verso un altro futuro “cult”, Ufficiale e gentiluomo, 1982. Lui è Zack Mayo, vittima di un padre sregolato, che vuol diventare pilota della marina. Saranno tredici settimane a prova di cuore, polmoni e coscienza, anche per demerito del sergente Foley (Oscar per Louis Gossett jr.), autentico manipolatore di pappemolli. La decima musa lo elegge a star internazionale con tanto di pedigree. Manca ancora un tassello per completare il tris. Arriverà nel 1990. Ma prima scorrono All’ultimo respiro (è un ladro di automobili), Il console onorario (un medico coinvolto in un rapimento), Cotton club, il biblico King David e il road movie Gli irriducibili. Eccoci al dunque. E al terzo misterioso signore incontrato all’inizio della storia: Edward Lewis. La chiusura del cerchio. Pretty Woman. Pare la solita graziosa commedia all’americana, che si mantiene in vita col retrogusto da fiaba metropolitana. Invece l’amore fra un ricco manovratore di denaro – Edward Lewis, appunto – e la bella signorina in affitto Vivian Ward (Julia Roberts), prende in contropiede il botteghino: rovinano addosso ai contabili quasi cinquecento milioni di dollari. E, nei lustri a venire, gongola pure la Rai. Il filmetto passa sedici volte sulla tv di Stato (dal 13 aprile 1992, 10 milioni 388 mila spettatori), facendo sempre consistenti bottini di share. E la canzoncina diventa icona dello shopping lussuoso, dove la carta di credito è assolutamente “bollente”. A quel punto Gere è vicino alla metà del cammino. Sfornerà altri 23 film – in tutto ne ha interpretati 44 con tre ancora in post produzione) – con un buon numero di successi, perlopiù legati ai sentimenti. Come Mr.Jones del ’93 con Anne Bancroft, Trappola d’amore (1994) con Sharon Stone, Se scappi ti sposo (1996) dove si ricompone la coppia Gere-Roberts, Autumn in New York (2000) melodramma con Winona Ryder, il thriller L’amore infedele (2002), dove l’invecchiato Richard diventa omicida per gelosia e il danzereccio Shall we dance? (2004). Ma anche action, come The Jackal con Bruce Willis (1997), remake del Giorno dello sciacallo, o il cappa e spada Il primo cavaliere (1995) o lo strampalato Io non sono qui (2007), puzzle bizzarro dedicato a Bob Dylan. È con Chicago (2002) che l’attore americano conquista il suo primo e unico Golden Globe. Da quando, in una cerimonia degli Oscar, Gere ha spottato il suo interesse per il Tibet, non è stato più invitato. La metamorfosi in buddista lo porta in prima linea per le cause civili (lotta all’Aids) e per i diritti umani. Come un uragano (2008), ancora con Diane Lane, è il suo ultimo palpito di attore romantico. I maligni dicono che Richard Gere abbia due espressioni: una per la gioia e una per il dolore. A un sex-symbol bastano e avanzano. Anche se l’anagrafe, senza sconti, gli ricorda la data di nascita: 31 agosto 1949.