Persécution, un capolavoro sulle solitudini

Con il primo, vero capolavoro di questa Mostra, Patrice Chéreau ha messo sul tavolo e dissezionato con dolorosa lucidità il tema attorno a cui girano molti dei film visti finora: la difficoltà, se non l’impossibilità, dell’amore. Persécution lo fa raccontando le peripezie quotidiane di Daniel (Romain Duris), trentenne parigino che vive ristrutturando, probabilmente in nero, appartamenti. Ma invece di raccontare le ragioni di questa vita o perché non abbia una vera dimora (vive dove lavora), il film ci porta a scandagliare i suoi complicati e infelici rapporti umani. Tutti schiacciati da un’insoddisfazione che non nasce solo da risposte inadeguate (l’amico infelice non ascolta i suoi buoni consigli, la fidanzata sembra sfuggire a un vero rapporto di coppia, gli anziani che assiste all’ospizio lo usano come un fattorino) ma soprattutto dalla coscienza di non riuscire a dare la felicità (o la bontà) che vorrebbe offrire. A renderlo cosciente delle ragioni di questa impossibilità arriva uno strano «intruso» che apparentemente sembra essere rimasto folgorato da un incontro sulla metropolitana e vorrebbe vivere addirittura con lui (la «persecuzione» del titolo), ma che in realtà diventa una specie di metaforico alter ego che lo obbliga a capire le ragioni dei suoi comportamenti e delle sue infelicità. In questo modo, recuperando una lezione che deve moltissimo a Dostoevskij e all ’Idiota, Chéreau aggiorna quel personaggio alla crisi morale e sentimentale del giorno d’oggi, dove le persone sembrano accontentarsi della mediocrità, del compromesso, della lamentazione e non hanno il coraggio di guardare in faccia alla propria pochezza. Daniel invece, sollecitato dalle domande dell’«intruso», lo fa e non può che constatare il fallimento dei propri sforzi (straziante la fine del rapporto con la fidanzata, che «va in mille pezzi» come un bicchiere rotto), finendo per negarsi anche ogni forma di perdono o di comprensione per i suoi errori, proprio come fa un mondo che sembra non accorgersi di quei problemi e di quelle fatiche. Ed è proprio questa radicalità — umana e morale insieme — che fa la forza del film, servito da un gruppo di attori perfetti (oltre al protagonista, Charlotte Gainsbourg, Jean-Hughes Anglade, Gilles Cohen, Alex Descas) e come ingabbiato dentro un’inquadratura che toglie la profondità degli spazi per «inchiodare» i protagonisti alle proprie azioni e alle proprie responsabilità. Anche il primo film a sorpresa del Concorso — inspiegabilmente un altro Werner Herzog, My Son, My Son, What Have Ye Done? — ha al centro uno strano «demente» (Michael Shannon), che ha ucciso la madre e che il poliziotto Willem Dafoe cerca di far uscire dalla casa in cui si è asserragliato. Ma se Chéreau interrogava direttamente il suo protagonista sulle ragioni delle sue azioni, Herzog (e il coproduttore David Lynch) sembrano «accontentarsi» di raccontare la follia del mondo circostante — una fidanzata succube, una madre castrante, amici dementi, uno zio megalomane — senza affrontare le responsabilità morali del protagonista. E senza trovare uno stile adeguato a far emergere l’«urgenza» di quei temi.
Paolo Mereghetti