Edward il vampiro: l'evoluzione del mito

Guardando l’Edward Cullen della saga di Twilight, giunta al suo secondo capitolo, New Moon, attualmente nelle sale, verrebbe da dire: “Non ci sono più i vampiri di una volta…”

Senza alcuna offesa per il fascinoso Robert Pattinson, che presta il volto sullo schermo al personaggio creato da Stephenie Meyer, e per le sue numerose ammiratrici, non si può non evidenziare un cambiamento sostanziale nella rappresentazione cinematografica del mito del vampiro. Il fascino, l’attrazione da esso suscitati rimangono, senza dubbio, immutati, così come l’aura d’indefinita pericolosità che lo circonda. Tuttavia, questa figura leggendaria sviluppata a partire dal terribile Conte Dracula ideato dallo scrittore inglese Bram Stoker nel 1897, ha perso progressivamente la malvagità, l’orrore puro che la caratterizzavano nelle pellicole del passato.L’aristocratica superiorità del conte, e della razza dei vampiri in generale, chiamata a sostituire gli esseri umani al vertice della catena alimentare, ha lasciato il posto alla malinconia e al senso di solitudine dei membri di questa specie a parte, conseguenze dirette dell’essere gli unici immortali in un mondo di mortali. Depressione, paura di essere incompresi e, di conseguenza, soli, terrore non esercitato sugli altri ma subito da parte di questi ultimi a causa della propria diversità: queste le caratteristiche predominanti del vampiro moderno.

Elementi introdotti, anni prima di Twilight, da due straordinarie pellicole: Martin (Wampyrnell’edizione italiana) di George A. Romero e The addiction di Abel Ferrara.
Nel primo, del 1976, il vampirismo è considerato alla stregua di una malattia che non ha nulla a che vedere con la mostruosità e la crudeltà storicamente attribuite agli immortali signori della notte. Anzi, Romero ci dice, puntando, come suo solito, il proprio sguardo «di genere» sulla realtà sociale che lo circonda, che esse sono insite nella natura degli esseri umani cosiddetti «normali», la cui incomprensione verso il diverso sfocia inevitabilmente, tra temente nella violenza.Prospettiva analoga per la pellicola di Ferrara, sottolineata dal titolo che richiama esplicitamente la «dipendenza» dalle droghe e la misera condizione di chi ne è affetto. Kathleen Conklin, la giovane studentessa trasformata in vampiro interpretata da Annabella Sciorra, vede se stessa come una vittima di tale malessere, dal quale cercherà una via di fuga, una forma di redenzione che la purifichi dai peccati commessi in risposta al suo bisogno malato. Ma non sarà facile, in un mondo in cui speranza è una parola vuota e il male è una malattia dalla quale è quasi impossibile guarire.

Martin e Kathleen: due vampiri che, come l’Edward di Twilight, suscitano affezione e compassione nello spettatore, in luogo di ripugnanza e terrore.

Indubbiamente, siamo lontani anni luce dallo spaventoso Max Schreck (letteralmente «massimo orrore») del Nosferatu il vampiro realizzato dal maestro tedesco Friedrich Wilhelm Murnau nel 1922. O dall’ancor più raccapricciante Klaus Kinski del remake, Nosferatu il principe della notte, firmato Werner Herzog a più di mezzo secolo di distanza dall’originale.
In entrambi, il vampiro è sinonimo di malvagità e terrore, un parassita che non ha nulla a che vedere con il mondo degli uomini, prede indifese delle quali cibarsi, anche se hanno il volto angelico e affascinante di Isabelle Adjani. Un viso pallido e spaventoso, con occhi infossati nelle orbite e orecchie a punta, risplende nell’atmosfera cupissima delle due pellicole, entrambe private di ogni forma di consolazione per lo spettatore, invischiato nel nichilismo e nella crudeltà delle immagini che gli scorrono davanti (soprattutto il film di Herzog è stato per anni un punto di riferimento fondamentale per l’iconografia del conte succhia sangue).

Il senso d’inquietudine del Nosferatu espressionista verrà lievemente smussato dalla caratterizzazione che Bela Lugosi offrirà del personaggio in Dracula, nel 1927. I capelli «imbrillantinati» e lo sguardo magnetico dell’attore ungherese, enfatizzato da precise scelte di regia, testimoniano la volontà di Tod Browning (che raggiungerà la piena notorietà cinque anni più tardi con il bellissimo e, per certi aspetti, maledetto Freaks) di focalizzare la propria attenzione sulla malinconica esistenza del vampiro e sul fascino, pur sempre macabro s’intende, di un assassino spietato che attrae irresistibilmente le sue vittime come fa la luce con la falena.
Nonostante l’impostazione estetica del film di Browning si discosti, in parte, da quella ben più marcatamente horror di Murnau ed Herzog, il peso del dover portare sullo schermo un personaggio così mostruoso (unito a scelte discutibili che ne compromisero la carriera) avrà nefaste conseguenze sulla vita privata e la psiche di Lugosi, che morirà morfinomane in una villa cinta da un cancello sormontato da pipistrelli scolpiti, prima di esser sepolto con indosso il mantello di Dracula.

Spetterà alla Hammer Film Production, negli anni ’50, il compito di riportare il celebre conte alle sue terrorizzanti origini, affidando il ruolo all’imponente Christopher Lee in Dracula il vampiro, pellicola segnata da quel carattere gotico che farà la fortuna della casa di produzione britannica. Lee porta sullo schermo un vampiro nuovamente sanguinario e crudele, carismatico e privo di scrupoli. Il film ha uno dei suoi punti di forza nel duello tra Dracula e il cacciatore di vampiri Van Helsing, che si trasforma in un duello di bravura tra i due rispettivi attori: Lee, da un lato e Peter Cushing, dall’altro.
Elementi che hanno reso Dracula il vampiro uno dei film più memorabili nella storia del cinema horror, punto di riferimento per molteplici produzioni future incentrate sul principe delle tenebre.

Questo, almeno, fino al 1992, anno dell’arrivo nelle sale di Bram Stoker’s Dracula.

Fin dal titolo, la pellicola di Francis Ford Coppola si propone come la più fedele trasposizione del romanzo e, in effetti, dal punto di vista dell’intreccio narrativo e per il ruolo centrale riconosciuto, per la prima volta sul grande schermo, ai diari dei protagonisti (il libro appartiene, infatti, alla categoria dei romanzi epistolari), l’intento può dirsi raggiunto. Tuttavia, il regista americano imprime una svolta fortemente romantica alla propria rappresentazione di Dracula, con l’introduzione di una novità sostanziale rispetto alla trama dell’originale letterario. Il personaggio di Mina Harker (Winona Ryder), oggetto del desiderio del conte interpretato daGary Oldman (dopo la rinuncia di Daniel Day Lewis, impegnato sul set de L’ultimo dei Mohicani), si scopre essere la reincarnazione dell’amore perduto del vampiro, rimpianto da quest’ultimo per tutti i secoli della sua vita immortale.
Ancora una volta, come con Lugosi, la malinconica solitudine e l’affascinante diversità del vampiro ne oscurano l’intrinseco orrore cancellandone, stavolta in maniera decisa, la malvagità.

Il film di Coppola, sontuoso nella messa in scena ma freddo nella sua indecisione tra horror e melò, diventerà il nuovo modello cinematografico per la raffigurazione del vampiro, prontamente evidenziato, due anni dopo, da Intervista col vampiro di Neil Jordan.
Il confronto tra Louis (un Brad Pitt agli esordi), vampiro pieno di rimorsi e rancore per la sua infelice condizione di non-vita, ed il perfido Lestat (Tom Cruise, in una delle interpretazioni migliori della sua carriera), che, al contrario, trae un piacere profondo dal togliere la vita agli inferiori esseri umani, è la perfetta sintesi dello scontro tra le due differenti visioni di quest’icona leggendaria.

A giudicare dal successo straordinario che circonda la saga di Twilight e il suo impacciato, pensieroso protagonista, non è molto difficile capire quale delle due abbia vinto, per il momento, questa battaglia dell’immaginario.

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