
« Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973. »
Comincia così il romanzo di Alice Sebold, alla stessa maniera con cui ha inizio l’omonimo lungometraggio che trae ispirazione dalle sue pagine, Amabili resti. Quest’ultimo, riadattato per il grande schermo e diretto dal regista neozelandese Peter Jackson (Premio Oscar per Il signore degli anelli), vede la quattordicenne protagonista, stuprata ed assassinata da un uomo che fugge dalla giustizia ed è pronto ad uccidere ancora, narrare le vicende successive alla propria morte, in una sorta di limbo personale che prende il nome di Cielo e le permette, anche se in rare occasioni e per poco tempo, di comunicare con i membri della sua famiglia rimasti in vita. Il film, la cui uscita nelle sale italiane è prevista per il prossimo 12 febbraio, è interpretato da Saoirse Ronan, Rachel Weisz, Mark Walhberg, Stanley Tucci e Susan Sarandon, ed è attesissimo dagli affezionati lettori dell’originale bestseller.
Malgrado una trama tanto stravagante e singolare, però, Amabili resti è in realtà la seconda pellicola ad esser incentrata sulle vicende personali di un’adolescente ormai deceduta e, pur tuttavia, surrealmente in grado di raccontare la storia della propria, tragica scomparsa. Il 10 maggio del 2008, difatti, sulle tv statunitensi andava in onda per la prima volta An American Crime, una controversa opera cinematografica della durata di cento minuti, basata sui reali accadimenti che diedero vita alla tortura, e conseguentemente al decesso, di Sylvia Likens, una sedicenne dell’Indiana brutalmente seviziata da una casalinga affetta da seri disturbi mentali, Gertrude Baniszewski.
Era il 1965, quando Sylvia e sua sorella venivano lasciate dai propri genitori, dipendenti di un luna park, di fronte alla porta di casa Baniszewski, e lì abbandonate senza alcun preavviso. Gertrude, madre single di sette figli, incline all’abuso di alcool ed in preda ad una terrificante crisi finanziaria, dimostrava immediatamente una crudele avversione nei confronti delle ragazze, in particolare della prima. E quel che venne in seguito definito come “il più grande crimine americano di tutti i tempi”, vide un intero quartiere di Indianapolis, composto dalla donna, i suoi figli ed altri giovani del vicinato, mettere in pratica le più disumane violenze sul corpo della Likens, segregata in uno scantinato per l’intera durata delle atrocità.
Mirabilmente interpretato dall’Ellen Page di Juno, Catherine Keener e James Franco, An American Crime seguiva con scrupolosità e precisione i flashback della vittima, alternando ad essi alcune riproduzioni passo-passo del vero processo in tribunale svoltosi nell’aprile del 1966, conseguente ad una chiamata alla polizia da parte di uno dei giovani e al ritrovamento del corpo esanime di Sylvia.
Similmente ad Amabili resti, An American Crime si apriva sull’inquadratura di una giovane Likens, malinconicamente sorridente ad una vita breve ed ormai compiutasi nel più atroce dei modi. Con indosso un vestito a quadri rossi, verdi e blu, e sul cavallo di una giostra cui faceva da sfondo il luna park dei suoi genitori, iniziava il racconto di una temibile serie di torture psicologiche (e non) inflitte dalla sua assassina: di un male che, dapprima rintanato nell’insana mente di una sola donna, veniva poi a propagarsi e a meglio definirsi in un pensiero collettivo, persino in chi era giovane e sano.
Scritto e diretto da Tommy O’Haver, regista de Il magico mondo di Ella, il film non è mai approdato nelle nostre sale, né è mai stato doppiato in lingua italiana. Ciononostante, dopo esser stato presentato al Sundance Film Festival del 2007, si è guadagnato una candidatura ai Golden Globe come Miglior attrice non protagonista (Catherine Keener).
Con un’impeccabile fotografia ed una magistrale ricostruzione di un clima passivamente freddo anni ’60, An American Crime, seppur di due anni antecedente, potrebbe benissimo competere con un altro adattamento cinematografico da poco in programmazione nei cinema, ovvero con quell’esteticamente perfetto A Single Man di Tom Ford.
Vien da chiedersi, allora, come mai l’ennesima pellicola così ben confezionata non sia riuscita a trovare un distributore italiano in grado di riconoscerne il valore.