Coldplay che condanna la normalità

A Natale il nuovo album: decisivo

ANDREA SCANZI

LONDRA

Sembra ufficiale: il nuovo disco dei Coldplay uscirà entro fine anno. Il momento è mediamente solenne: occorre decidere che fare da grandi. Le indiscrezioni, inizialmente, parlavano di una collaborazione di Brian Eno, storico produttore degli U2 e già sodale dei Coldplay nel disco precedente. Di alcuni brani si conosce il titolo (Mining On The Moon, The Fall Of Man, The Butterfly e Bucket For A Crown), un altro è stato suonato nell’ultimo tour (Don Quixote). Le ultime notizie parlano addirittura di 50 canzoni pronte. Pare che il quartetto stia scrivendo compulsivamente, nello studio londinese The Beehive. La fase creativa è tale da avere giustificato l’invenzione del Cool Wall, un muro su cui ogni componente della band attacca bigliettini col titolo della canzone inedita. I biglietti vengono divisi in tre gruppi – A, B, C – a seconda della validità. I brani A entreranno nel nuovo disco (per ora senza titolo), i B forse, i C no.
I Coldplay sono nati nel 1999. Inizialmente volevano essere una boy band dal nome Pectoralz (per fortuna han cambiato idea). Il successo è arrivo con il disco d’esordio, Parachutes (2000), trainato dal singolo Yellow. La casa discografica ipotizzò 40mila copie, si arrivò a un milione e600mila. Per molti il miglior disco dei Coldplay, Parachutes era dichiaratamente debitore dei Radiohead più accessibili. Chris Martin si è sempre detto ammiratore di Thom Yorke, di cui è copia edulcorata e rassicurante. Il secondo album, A Rush of Blood to the head (2002), dimostrò come il gruppo fosse dotato di innegabile longevità. I toni si fecero più beatlesiani, a partire dal singolo The Scientist, il cui video strappalacrime contribuì a eternare Chris Martin come sex symbol. Di lì a poco, nel 2003, avrebbe sposato Gwyneth Paltrow e avuto due figli. Questo coté «mondano» è tra gli aspetti che i fan dei Radiohead, contrapposti ai Coldplay come una riedizione della sfida Beatles-Stones, non perdonano a Martin.
Una sconfortante afasia creativa si palesò nel terzo X&Y (2005), francamente orribile. Il successivo Viva la Vida or Death and all his friends (2008) è emblematico: una sorta di vorrei ma non posso. I Coldplay si circondarono di collaboratori prestigiosi (Eno, Timbaland, Markus Dravs). Per la copertina scelsero un dipinto di Eugène Delacroix, La libertà che guida il popolo, a testimoniare con impeto didascalico il loro impegno. Un lavoro ambizioso, complesso, coraggioso, tutt’altro che brutto. Che però suonava già sentito. Nonostante i 3 Grammy, Viva la Vida si è rivelato poco prossimo alle speranze - un po’ scherzose e un po’ no – di Martin: «Vorrei fosse il miglior disco degli ultimi 40 anni, o almeno contenesse una canzone che tutti dovrebbero ascoltare prima di morire».
Alla resa dei conti, chi sono i Coldplay? In attesa del cruciale appuntamento di fine anno, sono uno strano caso di band di mezzo. Non sono mai stati (solo) commerciali, ma gli alternativi non se li filano granché. Originali, senz’altro, ma mai pienamente coraggiosi. Stimati dalla critica, ma mai quanto Radiohead o Sigur Ros. Piacioni e irriverenti, politicizzati ma non rivoluzionari, bravini ma non bravissimi. Impantanati a metà del guado, i Coldplay hanno forse l’unica colpa di essere, semplicemente, la migliore band «normale» degli ultimi dieci anni. Il nuovo disco ci dirà se Martin, ambiziosissimo, si accontenterà di questo status o inseguirà una volta di più l’opera indimenticabile. Col rischio di inciampare. O – peggio – di passare inosservato.

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