Bernard-Henry Levy
È la domanda che si sono fatti, già da una quindicina di giorni, i firmatari dell'appello «Fermiamo la lapidazione di Sakineh». È la domanda che si pongono le decine di migliaia di donne e di uomini che da quel momento in poi ogni giorno, a ogni ora - e certi giorni al ritmo di una firma ogni due o tre secondi - si sono uniti al primo appello. Ma, ovviamente, nessuno può rispondere a questa domanda spaventosa. E nulla ci assicura che, nei giorni a venire, forse domani stesso, o la notte seguente, quell'atroce sentenza non venga eseguita, riducendo il bel viso di Sakineh Mohammadi Ashtiani alla stessa poltiglia sanguinolenta di quello dei due amanti, lapidati a morte senza pietà il mattino del 16 agosto scorso, nei pressi di Kunduz, una regione dell'Afghanistan sotto il controllo dei talebani.
Dentro di me, non riesco a crederci. Credo, anzi voglio credere, che la campagna di mobilitazione avviata dal quotidiano francese Libération, dal periodico femminile Elle e dalla rivista letteraria online La Règle du Jeu finirà per spuntarla.
E questo, a mio parere, per tre motivi. Innanzitutto perché, come ha detto una persona che tra le prime ha risposto al nostro invito a spedire, ogni giorno, una «Lettera a Sakineh» (l'attrice francese Charlotte Gainsbourg), noi abbiamo la fortuna di vivere in democrazia, ovvero in paesi dove l'ultima parola spetta - talvolta nel male, ma in questo caso speriamo nel bene - a quel padrone assoluto che si chiama Opinione Pubblica. Quando 40.000 uomini e donne (il numero complessivo di coloro che fino a questo momento hanno già firmato) pensano che la lapidazione sia un crimine infame, quando ci mostriamo unanimi (al di là degli schieramenti di parte, delle convinzioni o meno di ciascuno) nel rispondere con le lettere dei nostri nomi alle pietre dell'oscurantismo e dell'oppressione, costringendo i governi a mettersi al nostro passo e a seguirci, allora non è certo un caso che il primo paese ad appoggiare con fermezza, nelle parole di Nicolas Sarkozy, la causa della giovane donna sia stato appunto quello che ha lanciato la petizione.
Secondo, per quanto implacabili siano le dittature, e per quanto prive di scrupoli, anima e virtù siano i loro governanti, esse non sono mai sorde al punto da ignorare i segnali che provengono dal mondo delle democrazie, pur nel braccio di ferro perennemente ingaggiato con loro, diventato ormai un modo di essere e quasi una seconda natura. Che un paese come la Francia abbia preso posizione con tanta risolutezza, al punto da dichiarare attraverso la bocca del suo presidente che la giovane donna minacciata di lapidazione è «sotto la sua responsabilità», che ne abbia fatto una questione di principio, d'onore e addirittura di interesse nazionale - di questo il regime di Teheran non può non tener conto, in un modo o nell'altro. Alla Règle du Jeu, grazie alla rete dei blogger e dei siti iraniani a noi collegata, abbiamo ricevuto notizia di un crescente movimento di opinione, all'interno degli ingranaggi giudiziari e politici iraniani, il quale stima che il prezzo da pagare per la condanna a morte, in piena agorà del villaggio planetario, di una donna il cui unico crimine è stato quello, forse, di essersi innamorata, risulterebbe per il regime troppo esorbitante e rischioso.
E infine perché su un palcoscenico ad alta tensione come quello iraniano in questo momento, in un teatro d'ombre su cui si affrontano gli amici della democrazia e i partigiani di una «mullahrchia» presto nuclearizzata, avanza oggi un terzo e ultimo attore il quale, benché troppo spesso dimenticato, svolge e svolgerà un ruolo sempre più cruciale: questo attore è la società civile iraniana in lotta, anch'essa, contro il suo Stato, per la difesa della cultura e dei valori della grande civiltà persiana. Non dimentichiamo inoltre che la nostra petizione, questo appello a favore di una donna ancora ieri sconosciuta ai più e che oggi il mondo intero chiama per nome, questo gesto di riconoscimento di un viso che è diventato, nel giro di poche settimane, una vera icona planetaria, ecco, sono questi i primi segnali di solidarietà concreta che siano stati rivolti a quella società civile da quando, poco più di un anno fa, essa si è vista derubare del voto. Un altro motivo per cui Ahmadinejad e i suoi non possono restare sordi all'appello che gli viene rivolto.
Ma nulla ci garantisce, e lo ripeto, che non ci sveglieremo domattina per apprendere dai giornali la tremenda notizia dell'esecuzione di Sakineh. Le ultime informazioni che ci giungono dall'Iran in questo senso non sono tutte incoraggianti. Se il potere, davanti all'ondata di indignazione globale, ha deciso ufficialmente di sospendere l'esecuzione della condanna a morte, ricordiamo che 1) il caso di Sakineh, già chiuso in precedenza, è stato riaperto dai giudici questo fine settimana (potrebbe, tuttavia, non essere un segnale positivo); 2) il figlio di 22 anni, Sajad, non ha più avuto contatti con lei (e questo è, senza alcun dubbio, molto inquietante); 3) sabato sera, 28 agosto, un responsabile della prigione di Tabriz ha annunciato alla prigioniera di tenersi pronta, invitandola a esprimere le ultime volontà (e di colpo ci sentiamo gelare il sangue).
E invece, a maggior ragione, è proprio questo il momento di continuare a implorare la clemenza dei giudici; di continuare a sollecitare la mobilitazione delle coscienze, davanti a un comportamento che potrebbe non essere altro che un atto intimidatorio, da parte delle autorità, allo scopo di incutere terrore. Se altri paesi si uniranno senza indugio alla Francia (perché no, da oggi stesso, anche l'Italia?), se altre voci rilanceranno a loro volta il nostro appello (che cosa aspettano gli intellettuali musulmani europei e del mondo arabo?), se riusciremo a essere ogni giorno più numerosi a firmare l'appello contro il fanatismo e per la concessione della grazia, solo allora, ne sono convinto, avremo una vera possibilità di salvare Sakineh.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
http://www.corriere.it/esteri/10_agosto_30/henry-levy_4a4cfd02-b424-11df-913c-00144f02aabe.shtml