Riavvolgi il cuore

SCRITTORI CULT Quanto cinismo siamo in grado di sopportare in cambio di altrettanta intensità? E dopo quanto tempo, di una storia che ci ha fatto male, rimane solo il bene? Parlando del suo nuovo romanzo (e della sua vita), Joseph O'Connor ci dà alcuni ottimi consigli
di Mara Accettura
Ci sono storie d'amore - soprattutto quelle turbolente, finite di botto che peggio non si può, quelle sepolte nel cimitero dei fallimenti - che un bel giorno, anche dopo molti anni, tornano dal nulla a turbare la quiete. Vediamo un volto nella folla o riconosciamo una canzone e, tutt'a un tratto, un rewind ossessivo ci porta a rivivere i ricordi più belli e quelli più dolorosi, e a chiederci il perché di quella fine. Per la ribelle Molly Allgood, la protagonista di Una canzone che ti strappa il cuore di Joseph O'Connor (in uscita per Guanda il 9 settembre), si tratta del rapporto con John Millington Synge, il drammaturgo irlandese dall'arroganza faraonica. Pur ambientata all'inizio del secolo scorso, e quindi ostacolata dalle convenzioni sociali, è una storia paradigmatica: l'incontro/scontro tra una giovanissima attrice ribelle, ma indifesa nelle questioni d'amore, e uno scrittore molto più importante, capace di grande intensità e altrettanto grande cinismo. "Quando ero ragazzino vivevo nel quartiere di Dublino dove c'era la casa di Synge. Ci passavo due volte al giorno, per andare e tornare da scuola", racconta O'Connor. "Mia madre, che era appassionata di letteratura, mi raccontò della storia clandestina tra il drammaturgo e questa giovane ragazza: sono rimaste le centinaia di lettere che lui le ha scritto. Mi è sempre rimasta in testa". Con questo romanzo O'Connor chiude la trilogia storica iniziata con Stella del Mare e La moglie del generale. "Ma il rapporto tra i due è inventato al 90 per cento. In realtà il libro parla di come guardiamo al passato e alle persone che, in un certo periodo, hanno significato molto per noi". Anche a quegli arroganti bastardi, fobici dell'impegno, che ci hanno trattato male? "Synge ha l'arroganza di chi non è sicuro di sé ma finge di esserlo. È il corteggiatore che vuole segretamente essere rifiutato. In realtà è capace di grande tenerezza. Ogni donna ha avuto un uomo così". Una tenerezza che non gli impedisce di dire una frase terribile che segnerà la fine della storia. "Già, sento il bisogno di chiedere scusa per il genere maschile. Voi donne siete molto più a vostro agio nelle questioni d'amore". Una volta lei ha detto che un romanzo è sempre politico e ha lo scopo di cambiare il mondo. Lo crede ancora, dopo avere scritto questo libro intimista? "Sì, e se non lo credessi smetterei di scrivere. Ma intendo "cambiare il mondo" non nel senso in cui lo fa un governo. Ogni cultura produce storie perché c'è un bisogno innato, in ognuno di noi, di sapere che cosa si prova a essere temporaneamente qualcun altro. Il paradosso del romanzo è che attraverso la finzione finiamo per scoprire qualcosa su noi stessi. In un mondo in cui è sempre più difficile pensare in profondità, criticare, non fare parte del gregge, questo è un notevole atto politico". Il protagonista dice che un grande artista non ha bisogno di nulla a parte una ferita interiore. È così anche per lei? "Una certa dose d'infelicità è sicuramente necessaria, se vuoi fare l'artista. Le persone che hanno sofferto e quelle che hanno subito un danno posseggono un'apertura al mondo che in genere non hanno le persone felici. Certo, preferirei essere felice e spero che i miei figli siano più felici che creativi, che facciano gli avvocati e i commercialisti e non gli scrittori o i poeti". Non dica così, lei viene da una famiglia molto dotata dal punto di vista artistico. "Certo, dotata ma incasinata. I miei genitori ci hanno trasmesso l'amore per la letteratura, con un affetto tipicamente irlandese. Grazie a loro, fin da piccolo sono stato consapevole del contributo di questa piccola terra piovosa alla cultura: James Joyce, William Butler Yeats, Oscar Wilde. D'altra parte i miei erano intrappolati in un matrimonio infelice e turbolento. Per bambini portati per i libri e la musica è un elemento fatale: l'immaginazione e l'arte diventano un'oasi, un rifugio sicuro. È quello che mi è successo". E a sua sorella (la cantante Sinéad O'Connor, ndr) cosa è successo? "Non so, non posso parlare per lei". Sappiamo che vi siete riconciliati e che adesso vi incontrate spesso ai cancelli della scuola dei vostri figli. Possiamo chiederle che cos'era successo? "Non me lo ricordo". Va bene, teniamo fuori Sinéad. Lei ha scritto che il romanzo è un invito all'empatia. Chi è il suo lettore ideale? "Il mio lettore ideale è chi mi legge in quel momento. Però quando scrivo ho sempre tre o quattro persone in mente di cui rispetto molto l'opinione. E quando arrivo a uno snodo spesso mi chiedo che cosa mi consiglierebbero. Uno di questi è il mio editore italiano, Luigi Brioschi, perché dice la verità, cosa che non succede spesso in questo campo. A volte faccio l'opposto del suo consiglio, ma ce l'ho sempre in mente". Ogni scrittore ha una maniera propria di accogliere il lettore. Del tardo Joyce si dice che, quando entri in un suo romanzo, lui non c'è: è probabilmente nascosto in cucina a scolarsi un whisky... "Sì, c'è un grande cartello che dice: "non toglierti il cappotto perché te ne andrai molto presto"". E lei, come riceve il lettore? "Mi piace un po' di stranezza e mistero all'inizio, non voglio spiegare tutto. Se lasci buchi da riempire, il lettore entrerà nella storia e troverà la strada. In pratica è come se dicessi: incontriamoci a metà strada e godiamoci l'avventura". È vero che inizia sempre dall'ultimo capitolo? "In genere comincio con un personaggio o una situazione e lo butto giù in diecimila parole. A quel punto mi fermo e non riprendo a scrivere fino a che non ho chiara la fine della storia. Scrivo una versione dell'ultimo capitolo e poi torno indietro e ricomincio daccapo. Per non perdermi, trovo utile avere una meta. Ci sono tanti modi per arrivarci, ma è importante sapere dove andare". Nel romanzo, Synge dice che il processo creativo è come osservare il lampo di uno sparo nella nebbia e tuttavia volere che le pallottole ti colpiscano. Che cosa significa? "Nel processo creativo c'è una fortissima casualità. Stai lì e la mente viene attraversata da migliaia di pensieri di cui solo una decina saranno utili al tuo romanzo. E speri che quei dieci ti colpiscano come pallottole potenti, scartando le scempiaggini, i sentimentalismi, le grandiosità". Prima di diventare scrittore lei ha fatto il giornalista. Riesce davvero difficile immaginarlo, lei ha un linguaggio troppo opulento per un giornale. "Infatti non ero bravo per niente. Per essere un giornalista devi amare i fatti, io amo le parole. Ogni volta che intervistavo qualcuno non resistevo alla tentazione di migliorare le dichiarazioni, di descrivere l'ambiente in cui eravamo, il traffico intorno... Insomma, i miei pezzi cercavano sempre di diventare fiction e i miei capi si innervosivano: "Cristo Joseph, è solo un'intervista!"". In quel periodo, a metà degli anni 80, è stato anche in Nicaragua. "Ero molto giovane e stupido". Stupido? In tanti abbiamo desiderato andare in Nicaragua, infatuati del governo sandinista. "Sì. È stata un'esperienza incredibile. Ma, a parte la rivoluzione, il motivo per cui mi sono trovato all'improvviso lì è stato un altro. Nel 1985 mia madre è morta in un incidente stradale: una perdita tragica che ha lasciato un sacco di questioni irrisolte. La mia maniera di reagire a quel dolore è stata partire per un posto in cui non conoscevo nessuno, senza peraltro parlare una parola di spagnolo. Ho girato per cinque mesi lavorando part-time per un giornale irlandese, cui mandavo interviste. Dopo questa esperienza sono tornato all'università". Cosa è cambiato da quando è diventato padre? "Quando ero più giovane non importava se un libro non era perfetto, pensavo di avere tanto tempo per scriverne uno successivo, più bello. Con i figli questo cambia: hai la percezione della tua mortalità. Sai che la tua vita finirà e che scriverai un numero limitato di libri. Da quando sono diventato padre mi sforzo al massimo, al cento per cento, perché vorrei lasciare qualcosa che duri sugli scaffali, e che i miei figli leggeranno anche quando non ci sarò più". Dove lavora? "In un piccolo ufficio in fondo al giardino, da cui le sto parlando ora. È un posto meraviglioso che tutti gli scrittori che conosco mi invidiano. I bambini ci vengono raramente e mia moglie, per quanto ne sappia, non ci ha mai messo piede. È un luogo ottimo per scrivere, ma anche per altre ragioni. Ne avrebbe bisogno ogni famiglia: salverebbe un sacco di matrimoni". Lei ha vissuto a Londra e a New York. Adesso è a Dublino. Un grosso cambiamento. "Sì, Dublino in confronto è ancora un paese dove si conoscono tutti. Siamo una grande famiglia disfunzionale che litiga tutto il tempo, ma quando abbiamo visite fingiamo di andare d'accordo. Il telefono squilla in continuazione e la gente vuole uscire a divertirsi. Mia moglie, che è inglese, pensa che questo sia meraviglioso, a me fa diventare matto". Ce lo dica: ha mai vissuto una storia come quella che ha raccontato? "No, però le dirò una cosa: non ho mai perso tempo ad amare chi mi non mi voleva. E ho sempre trovato estremamente attraenti le persone che mi hanno amato". Joseph O'Connor sarà al Festivaletteratura di Mantova l'11 settembre.