United Red Army

C’est nous le véritable peuple opprimé, nous qui n’avons ni terre, ni armée, ni langue!
Tra coloro che valutano un’opera d’arte dalla sua verità, ci dividiamo in due grandi famiglie: coloro che amano l’opera per ciò che dice e coloro che l’amano per ciò che tradisce. I primi amano i capolavori e interrogano il genio dell’artista, i secondi (come Mario Praz) amano le opere minori e ne interrogano l’ingenuità. A dire il vero ci sono anche i terzi, detti decostruzionisti, che amano l’opera per quello che le si può far dire. Il problema tuttavia é di stabilire se un’opera dica o tradisca quello vi leggiamo. Questo ha poco a che vedere con l’intenzione dell’autore, ma piuttosto con l’equilibrio degli elementi, la loro gerarchia, il loro funzionamento, la loro forza argomentativa. In questo senso ho sostenuto che Fight Club di David Fincher fosse una “critica straordinariamente lucida delle aspirazioni di ribellione spacciate dall’industria culturale”, sebbene gran parte dei critici vi avesse visto esattamente il contrario. Qualcuno ne ha difeso il valore sociologico, io lo difendo esteticamente perché mi pare dire più che tradire. Di 300 ho affermato che fosse un film più jihadista che neo-conservatore, e che giocando su questa ambiguità neutralizza l’ideologia dello scontro di civiltà. Ugualmente ho sostenuto che Marie Antoinette di Sofia Coppola é un film geniale perché dice, meglio di qualsiasi trattato, la condizione le aspirazioni la playlist e il destino tragico della borghesia contemporanea. Forse sono andato un po’ oltre quando ho iniziato a sottintendere che i film di Cristopher Nolan fossero sceneggiati male apposta. Il problema dei critici è che, credendosi troppo intelligenti (o perlomeno più intelligenti di un film americano), scambiano spesso per lapsus il contenuto patente dell’opera. O forse sono io che leggo i film al rovescio?
Tutto questo per dire che ieri ho visto un bellissimo film, Notre jour viendra di Romain Gavras, già regista del video inquietante per Stress dei Justice. La critica é unanime nel sostenere che il film é confuso e fallisce nel realizzare una coerente parabola sull’esclusione sociale. Ma appunto: i critici non capiscono niente. Loro non vogliono il lieto fine ma una lieta morale, rassicurante e progressista, mentre la morale di Romain Gavras é crudele, come già in Stress. In questa favola surreale su due “rossi” di capelli che si rivoltano contro la società, colpevole di discriminare il rutilismo, sta una riflessione terribile e originale sull’identità comunitaria come principio di disgregazione, prima che di aggregazione (un tema di cui ho già scritto qui). Uno straordinario Vincent Cassel fomenta e cristallizza l’odio di un giovane disgraziato, dandogli una forma politica, un vocabolario e dei nemici da abbattere: ebrei, arabi, omosessuali, donne… Gavras si era già sporto sul tema in un videoclip per la cantante MIA, che mette in scena una deportazione di rossi dando corpo alla fantasia vittimistica dei protagonisti del lungometraggio. Il critico allora si chiede :
On ne voit pas quelle logique de classe ni quelle injustice sociale justifient l’attitude des ces deux personnages, qui frappent sur tout ce qui bouge au nom d’une révolte sans nom.
Che il film di Gavras, che scardina la figura dell’oppresso, abbia potuto essere interpretato come una banale allegoria dell’oppressione, é quantomeno bizzarro. Ma si sa, sono io che leggo il cinema al rovescio.