Madonna: «Io sono perché noi siamo» di Rich Cohen

28 Maggio 2008
Stanze disposte a circoli concentrici, collegate da corridoi e anticamere: questo è il mondo. E nella stanza al centro di tutte quelle stanze, Madonna siede sola, indosso un abito bianco, a sognare l'Africa. Per raggiungerla, attendi un segno. Ma quando il segno arriva, devi sbrigarti. Un momento sei in Connecticut a casa tua e il momento successivo, trascinato da una forza più grande di te, ti ritrovi in macchina sull'autostrada, a sfrecciare davanti a città ancora addormentate. Perché, come ogni pellegrino, parti prima dell'alba. Come ogni pellegrino, ti togli le scarpe (per attraversare i controlli di sicurezza all'aeroporto). Come ogni pellegrino, leggi e rileggi (sull'aereo per Los Angeles) i testi sacri: interviste e recensioni, le prime pubblicate nei primi anni Ottanta, le più recenti appena un secondo fa, che formano una sorta di documento storico, il Vangelo di Madonna.
La storia, più o meno, è sempre la stessa, quasi un capitolo di folklore americano. La ragazza dei sobborghi di Detroit. I primi anni in Paradiso, quando la mamma era giovane e viva, con ricordi che lei definisce «belli e sgranati come vecchie foto». Poi la tragedia, la ferita che non guarisce mai, la morte di sua madre per
un cancro al seno quando Madonna ha solo sei anni. I giorni vuoti, afflitti da sogni tormentati. «Provi una sensazione di abbandono», mi spiega. «I bambini pensano sempre di aver fatto qualcosa di sbagliato quando i loro genitori spariscono».
E poi il secondo matrimonio del padre, la matrigna, il lavoro ingrato, perché è la più grande degli otto bambini di quella casa, e perciò deve aiutare gli adulti − lavando, asciugando e cambiando pannolini − quando è ancora piccola lei stessa.
Segreti e desideri, la vita davanti allo specchio, gli anni della scuola superiore, dove lei - bellissima, ma un po' punk e strana - fatica a integrarsi: «Non rientravo nel gruppo delle ragazze popolari. Mi consideravano una hippie o una drogata, comunque una persona stramba. Ero appassionata di danza e di musica classica, e per questa mia "diversità" i ragazzini sapevano essere molto cattivi. Ma invece di subire, decisi di accentuare le cose che mi rendevano diversa.
Non mi depilavo le gambe, mi facevo crescere i peli sotto le ascelle. Mi rifiutavo di truccarmi, di adeguarmi all'idea convenzionale di una ragazza carina. Perciò venivo perseguitata ancora di più, e questo di riflesso rafforzava il mio senso di superiorità, mi aiutava a sopravvivere. "Presto o tardi me ne andrò di qui", pensavo. "Tanto sono tutti trogloditi in questa scuola: non sanno neppure chi sia Mahler!"».
Nella danza Madonna trova rifugio. Si iscrive all'Università del Michigan per studiarla, ma solo un anno, poi scappa a New York. L'ascesa alla celebrità è rapidissima. Nel 1983 - 25 anni fa - esce il primo disco e, di lì a un anno, ogni ragazzina di ogni scuola di ogni Paese vuole essere come lei, dalle smorfie sguaiate ai guanti di pizzo. Un insider del mondo musicale, intervistato nel 1985 su Time, sentenzia: «Cyndi Lauper durerà a lungo. Madonna, invece, sparirà dalla circolazione nel giro di sei mesi». Di tutte le sacre letture, è la frase che preferisco.
Atterro a Los Angeles, aspetto bagagli e intanto sfoglio il New York Post. Eccola, in una foto del giorno prima: Madonna in questo stesso aeroporto, in braccio David, il figlio di due anni e mezzo adottato nel Malawi nel 2006, le macchine fotografiche a pochi centimetri dal viso. «I paparazzi sono ormai fuori controllo», mi dirà più tardi. «Non venivo a Los Angeles da un po'. In Inghilterra si tengono un po' a distanza, perché lì è illegale fotografare i minori. Ma qui non gliene importa niente se spaventano i tuoi bambini. È cambiata, la celebrità: c'è un mercato talmente grande, tra riviste, Tv e Internet, che è aumentato in modo esponenziale il numero di persone pronte a darti la caccia. E siamo stati noi a creare il mostro».
Dall'aeroporto mi portano a Century City. Entro nel moderno palazzo della CAA, l'agenzia che la rappresenta, e lì mi fanno sedere in una sala di proiezione deserta. Le luci si abbassano e, per novanta minuti, guardo un documentario scritto e prodotto da Madonna, I Am Because We Are («Io sono perché noi siamo», come recita un proverbio africano), che dopo la prima newyorkese al Tribeca Film Festival, verrà presentato a Cannes. Racconta il Malawi, una piccola nazione dell'Africa sub-sahariana senza sbocchi sul mare, devastata dall'Aids, piena di orfani, un mondo senza adulti che è diventato la grande causa della vita di Madonna.
Sembra che, con questo documentario, lei speri non soltanto di informare l'opinione pubblica, ma anche di spiegare la sua ossessione per i bambini africani senza madre. Il film comincia con Madonna che cammina in mezzo a una folla di africani.
Poi si sente la sua voce: «Mi chiedono sempre perché io abbia scelto il Malawi. Ma non sono stata io a scegliere, è il Malawi che ha scelto me. Tempo fa ho ricevuto una telefonata da una donna, Victoria Keelan.
Mi ha spiegato che nel suo Paese c'era un milione di bambini resi orfani dall'Aids, e non abbastanza orfanotrofi per ospitarli. Mi ha spiegato che questi orfani vivevano per strada, dormivano sotto i ponti, si nascondevano negli edifici abbandonati.
Venivano sequestrati, rapiti, violentati. Mentre mi descriveva questo stato di emergenza, sembrava sul punto di piangere. Le ho chiesto come potevo aiutarla. Lei mi ha risposto che sono una persona con molte risorse, e la gente presta attenzione a quel che dico e faccio. Mi sono sentita in imbarazzo, le ho confessato che non sapevo neppure dove fosse il Malawi. Victoria mi ha detto di cercarlo su una cartina e mi ha riattaccato il telefono in faccia. In quel momento ho deciso che dovevo almeno provare a capire, e ho finito per scoprire molto di più di quanto avrei voluto: sul Malawi, su me stessa, sull'umanità».
Madonna ha accolto un bambino del Malawi, David, che si è unito agli altri suoi figli, Lourdes di 11 anni e Rocco di 7, in un villino unifamiliare a Londra. È stata la nascita di Lourdes, nel 1996, a mettere Madonna sulla strada che l'avrebbe portata fino all'Africa. «Quando hai dei figli, capisci di avere una responsabilità verso il prossimo», mi spiega. «I figli ti imitano: le tue convinzioni, i tuoi valori e le tue priorità hanno un'influenza diretta su di loro, che sono come fiori in un giardino. Così cominci a mettere in discussione tutto ciò a cui dai valore, e la sofferenza degli altri bambini ti diventa sempre più intollerabile».
Dev'essere stato come vincere la lotteria per David, che da un momento all'altro, nell'ottobre 2006, è stato strappato alla sua vita di povertà per volare verso il benessere. Lo si vede nel film, le gambe tarchiate e leggermente raggrinzite, quasi da adulto, come le hanno solo i bambini dei Paesi davvero poveri. Basta guardarlo per capire perché Madonna abbia scelto proprio lui. Il problema è che è entrata in un orfanotrofio di sieropositivi e ne è uscita con un bambino che non ha l'Aids e non è neanche orfano. Per complicare ulteriormente le cose è saltato fuori il padre biologico di David, Yohane Banda, che ha raccontato ai giornalisti di aver messo suo figlio nell'orfanotrofio «perché mi hanno detto che sarebbe stata una cosa buona per il Paese, che il bambino sarebbe tornato istruito e avrebbe potuto aiutarci». La stampa - quella britannica, soprattutto - si è scatenata. Ma la situazione di David, che compie 3 anni a novembre, è oggi vicina a un chiarimento. Il giudice di Lilongwe, la capitale del Malawi, proprio in questi giorni dovrebbe confermare l'adozione. Madonna intanto ha annunciato la costruzione di una scuola, una delle numerose attività umanitarie che già finanzia nel Paese. «L'Africa non sta andando certo bene», mi dice, «ma quanto ha contribuito la sua gente alla devastazione del pianeta? Per niente, rispetto a noi che abbiamo tutto».
Questo è un grande momento per Madonna. C'è il disco, Hard Candy, in testa alle classifiche di mezzo mondo. C'è il documentario. C'è anche un film drammatico, Filth And Wisdom, di cui è co-autrice, produttrice e regista.
Uscirà, coraggiosamente, su iTunes, dopo la prima al Festival di Berlino. «Sono sposata con un regista (Guy Ritchie, ndr), dirigere un film è uno dei miei desideri segreti». Protagonista di Filth And Wisdom è Eugene Hütz, il cantante ucraino della gipsy-punk band newyorkese Gogol Bordello. «Ma credo che il film sia stato seriamente influenzato da Godard», dice Madonna. «Lui è un regista che mi ha sempre ispirato, come tanti altri, tutti europei, tutti defunti. Ho frequentato l'Università del Michigan per un anno e, fortunatamente, proiettavano film stranieri: Fellini, Visconti, Pasolini, De Sica, Buñuel».
Il film ruota intorno all'ideologia di Madonna, ispirata ai mistici ebraici della Kabbalah: non esistono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. «Alla fine, tutto è bene. Anche il male è bene, perché il male esiste per aiutarti a resistere a esso». Il suo interesse per la Kabbalah è anche una ricerca di cose senza tempo, di profondità. Madonna cerca quel che si può salvare, quel che rimarrà quando lei avrà 65 o 70 anni. Per una pop star ci sono, in un certo senso, due morti, o forse di più: forse una pop star muore e rinasce continuamente.
L'intervista dura quasi due ore. Ai tempi del liceo sono uscito con così tante ragazze che cercavano di somigliarle: finalmente sono di fronte all'originale. Madonna parla dell'Africa: «Se hai anche soltanto un briciolo di compassione, non puoi ignorare quel che sta accadendo laggiù. Devi trovare un modo di diventare parte della soluzione».
Madonna parla di New York: «Non è più quel posto eccitante che era una volta. Ha ancora una grande energia e me la trasmette. Ma non sembra viva, crepitante di quella sinergia tra il mondo dell'arte e quello della musica che c'era negli anni Ottanta. Sono morte troppe persone».
Madonna parla del music business: «C'è una cosa sola che non ti puoi scaricare da Internet: le emozioni di un concerto dal vivo. E io, dal vivo, ci so fare».
Madonna parla della sua lunga carriera: «Sinceramente, non ci penso. Quanto ancora posso durare? Io mi limito ad andare avanti».
Madonna parla di Guy Ritchie: «Facciamo film diversi. I suoi sono carichi di testosterone. I miei rispecchiano un punto di vista più femminile».
Madonna parla dei figli, e di come cambiano la vita. Le chiedo quali sono i suoi libri per bambini preferiti, e lei risponde «Pippi Calzelunghe».
Non ho mai letto Pippi Calzelunghe.
«Ha una figlia?».
No, tre figli (mi rivolge uno sguardo accusatore). Non è una cosa che ho scelto, è semplicemente andata così.
«E lei crede che le cose accadano semplicemente, così?».
Altrimenti, chi è che decide il sesso dei bambini?
«Lei e la sua signora. Anzi, lei e la sua anima».
Crede davvero che la mia anima volesse figli maschi?
«Inconsciamente, sì».
Le chiedo della Kabbalah. «Io sono cresciuta con la religione cattolica», risponde, «e non sono stata mai incoraggiata a fare domande, a comprendere i significati più profondi del Nuovo Testamento e della storia di Gesù. Non sapevo neppure che Gesù fosse ebreo. Chi ha voglia di sentirsi sempre dire che le cose si fanno
perché si fanno e basta? Quando ho cominciato a frequentare gli incontri per lo studio della Kabbalah, l'ho fatto per curiosità. Mi era stato detto che si trattava dell'interpretazione mistica del Vecchio Testamento». Ma la Kabbalah, aggiunge, è una filosofia, e offre lezioni di vita.
«Una è che siamo tutti responsabili delle nostre azioni, del nostro comportamento, delle nostre parole, e dobbiamo assumerci la responsabilità di ciò che diciamo e facciamo. Quando capisci questo, non puoi più considerare la vita una serie di eventi casuali. Io sono l'artefice del mio destino. Sono io che comando. Attiro verso di me una cosa, un'esperienza, oppure l'allontano. Non posso dare ad altri la colpa delle cose che mi capitano. L'altra lezione è che esiste un ordine nell'universo, anche se sembra regnare il caos. Noi dividiamo il mondo in categorie: questo è buono e quello è cattivo. Ma la vita è inganno».
Madonna guarda fuori dalla finestra, verso Los Angeles che si accende di luci. «Devi arrivare al punto in cui non te ne importa più niente se dicono falsità sul tuo conto, se diventi il bersaglio dei giornali scandalistici. Perché quella, in fin dei conti, è merda. Se la tua gioia deriva da quel che la società pensa di te, rimarrai sempre deluso».