LONDRA - È una Venere tascabile sul minuscolo palco del Café de Paris di Piccadilly. Un gruppo rock, un quartetto d'archi, e davanti al microfono Duffy, la biondina gallese con la voce adolescente che grazie all'album d'esordio, Rockferry (2008), ha venduto 6,5 milioni di copie proponendo una tenera e moderna alternativa al Motown Sound. Well, well, well, il nuovo singolo (da noi già celebre anche come jingle di uno spot pubblicitario), è trascinante quanto Mercy, il brano che l'ha lanciata, e le altre nove canzoni di Endlessly, il cd che esce il 30 novembre, sono fresche, contagiose, raffinate. Prodotto da Albert Hammond e suonato con il gruppo dei Roots, potrebbe essere il disco che la catapulta definitivamente sul mercato internazionale.
Duffy, 26 anni, è un cameo che sembra ricavato da una vecchia foto della Bardot. Entusiasta, allegra, si commuove per nulla. "Se incomincio a piangere non la smetto più", ammette. Piange, quando la incontriamo la mattina dopo e le raccontiamo che il Café de Paris era il locale preferito da Marlene Dietrich. Piange ripensando alla sua infanzia povera quando "stavo incollata con la mia gemella Katy davanti alla radio. Lì ho conosciuto Depeche Mode e Joy Division". Confessa di aver visto migliaia di volte un dvd del Pavarotti & Friends in cui Big Luciano canta It's a man's world con James Brown. "Davvero lei era lì quella sera?", e piange. Due grosse lacrime si fanno strada
tra rimmel e fondo tinta anche quando parla di Marvin Gaye: "Ma l'ha mai visto cantare l'inno americano? Elegante, sexy, un angelo".
Il concerto di Duffy al Café de Paris era solo uno showcase per pochi invitati, ma è bastato per capire che l'artista è pronta per il grande salto. "Il secondo album, dopo un esordio di successo, è per tutti una paranoia", esordisce. "Per me invece è stato un sollievo. Mi sentivo limitata, mi dicevo: "Ti esibisci davanti a 60mila persone e hai solo dieci canzoni in repertorio". Lo so, a chi non fa piacere avere milioni di fan? Ma più che di adulazione ho bisogno di belle canzoni. Non ho mai dato niente per scontato, un disco di successo non significa niente, solo quando ne avrò fatti quattro o cinque potrò dire di avercela fatta".
Figlia di divorziati, sballottata da una casa all'altra, la piccola Aimée Ann Duffy è cresciuta con il sogno di diventare una popstar. Era un modo per sfuggire alla vita sonnolenta della provincia, e anche per sfidare i benpensanti, "quelli che dicevano che mia madre era uno poco di buono solo perché era bella come Helena Christensen, si truccava e indossava abiti eleganti". La notte in cui la signora Joyce lasciò suo marito, la prese per mano e la portò con sé dicendole che stavano partendo per una nuova avventura. Già da adolescente piangeva e piangeva; neanche la sua gemella capiva la sua testardaggine. "Poverina, si sforzava di condividere i miei sogni, ma ne era anche spaventata. Avevo dentro una smania, sapevo che dovevo fare qualcosa, avrei dato la vita per quel primo disco. E sono andata avanti come se fossi predestinata, con la convinzione che qualcosa sarebbe successo. Ed è successo... il successo. Ma ci tengo a dirlo, senza grossi contraccolpi. Per me è come se fossi sempre stata così. Lo accetto con umiltà, come una suora accetta i voti. La differenza è che quando facevo la cameriera, la domanda ricorrente era: "Signore le porto un caffè?". Ora le canzoni hanno preso il posto del caffè. Non è meraviglioso dire al pubblico: "Signore e signori, volete una canzone?". Io credo che ormai il divismo vecchio stile sia logoro".
Duffy è fiera del suo piccolo grande disco, motivetti e melodie che lasciano ben sperare in una rinascita della "canzone" con la C maiuscola. "Per scrivere i nuovi brani mi sono nascosta", confessa. "Sono fuggita, prima in Spagna, come un'autostoppista qualsiasi, io, lo zaino e il cellulare. Casa mia è dov'è la mia valigia. Mi sentivo così già a sedici anni, quando partivo con una borsa a mano e vagabondavo per l'Europa. Mi sono trovata bene anche a Los Angeles, una bella atmosfera, anche se la città al mondo che preferisco è Parigi, il posto che coincide con il mio concetto di cool. Adesso che sono più ricca vado a Ravello, e da lì ogni tanto scappo a Napoli e mi siedo in quelle minuscole pizzerie tradizionali che apparecchiano con le tovaglie di carta".
A Hollywood, mentre con Hammond metteva a punto le ultime registrazioni di Endlessly, le hanno proposto anche un ruolo importante in un film importante di un regista importante. "Non dirò mai il nome, ma sapesse quanto mi è costato dire no. Però non mi sentivo pronta, anche se sono un'appassionata di cinema (Nuovo cinema Paradiso, Colazione da Tiffany e Fino all'ultimo respiro sono i miei preferiti). E poi c'è il problema che da una sceneggiatura - e ne ho lette diverse - non riesco a capire come davvero possa essere il film. Io sono abituata al potere di poche parole racchiuse in una canzone. Forse fra dieci anni... se sarò diventata una grande come la Piaf. La adoro, mi sconvolge, è modernissima. Per questo ho voluto cantare al Café de Paris, per sentirmi come Edith all'Olympia. Ma magari fra dieci anni avrò già tirato i remi in barca, mi sarò sistemata, come vorrebbe mia madre, insomma. Il mio sogno è essere una cantante di successo serena e soddisfatta, senza rimpianti. Fiera di aver sempre lottato per la qualità. E spero fra dieci anni di non aver perso la pietà e l'amore, senza i quali un uomo non è un uomo".