


Il sipario di questa V edizione del Festival di Roma è lasciato al film di Eric Lartigau, proiettato fuori concorso. Tratto dal romanzo di Douglas Kennedy, L’Homme qui voulait vivre sa vie vede come protagonista l’empatico Romain Duris (la cui energia e intensità era già emersa in Tutti i battiti del mio cuore) calato in un noir di identità.
Paul Exben è un avvocato apparentemente realizzato. Ha una famiglia (una bella moglie e due figli), conduce una vita agiata, vive in una villa fuori Parigi. Sta per rilevare lo studio legale cofondato con Anne (Catherine Deneuve), decisa a cedergli la sua quota per via di un male molto grave da cui è stata colpita. Ma sin dalle prime battute avvertiamo tensione nella coppia, insofferenza e astio nella moglie Sarah, un’ ‘euforia’ in Paul che sdrammatizza ed evita il confronto con la realtà di quello che è. Piccoli indizi ci rendono presto il conto: Paul ha messo al chiodo i sogni di 20enne, arrendendosi alla difficoltà di vivere facendo il fotografo, preferendo la scorciatoia della ‘normalità’. E il conto arriva in modo pesantissimo. Scopre che Sarah lo tradisce con un suo vicino che incarna proprio quello che Paul non ha avuto il coraggio di diventare. E, tragicamente, dopo un confronto tra i due uomini scoppiato quando Sarah comunica a Paul che vuole il divorzio, Paul si dissocia dalla sua vecchia esistenza per sempre. Il gesto fatale che compie lo obbliga ad abbandonare tutto (figli compresi) e a costruirsi una nuova identità.
Paul riappropria di se stesso, impugnando una macchina fotografica e fuggendo nella ex Yugoslavia. Comincia a scattare e a lavorare: inaspettatamente e con estrema facilità, rinasce artisticamente: collaborando con un giornale; il successo delle sue foto gli procura l’allestimento di una mostra e contatti importanti (Londra, per cominciare) e una donna più autentica di sua moglie. Ma Paul (che non è più Paul e che non può permettersi di essere riconosciuto), di fronte al rischio del successo, sarà costretto di nuovo a scappare, imbarcandosi su una nave con destinazione Brasile. Il suo vagabondaggio esistenziale si mescola al vagare dei clandestini, di chi non ha una terra propria se non se stesso. E il suo sguardo diviene più consapevole, più conscio di un senso della vita amplificato, che supera i confini e le sicurezze di un modello (quello che ha lasciato) parziale, limitante. Peccato che quest’aura, questa indeterminatezza, incertezza, si avvertano solo alla fine.
Eric Lartigau pare entrare e farci entrare nella dimensione soggettiva e oggettiva della storia troppo tardi, non lavorando di cesello, sia nella sceneggiatura che nello sguardo, quando descrive le vari fasi del trapasso e della riscoperta di se stessi. Romain Duris ce la mette tutta nel rendere dolore, perdita di sicurezza ed affetti, perdita di identità, mentre risulta poco credibile nei momenti topici di disperazione e annullamento di sé. Forse perché mal diretto: la sensazione è che il regista abbia avuto timore di toccare troppo, di scandagliare realmente nello svuotamento e nella rinascita dentro una nuova vita.
Maria Cera