Vincent Cassel, il Cigno nero

Vi ricordate Il fascino discreto della borghesia, di Luis Buñuel? In quel film Jean-Pierre Cassel, padre di Vincent, era Sénéchal, borghese incapace di trattenere il suo appetito sessuale. Seduta di fianco al figlio, per la presentazione di Cigno nero di Darren Aronofsky, ho modo di verificare l’ereditarietà di quei malandrini occhi blu. Si parla, per l’appunto, del film che ha inaugurato la Mostra di Venezia 2010. Cassel interpreta Thomas, tirannico coreografo che spinge al sacrificio e alla follia l’aspirante prima ballerina Nina (Natalie Port-man). A una tavolata sbavante di giornaliste, Cassel si offre di parlare in italiano. Anzi, «un misto di inglese, italiano e francese, va bene?».
Nel film il tuo personaggio dice che la perfezione non è sexy. Sei d’accordo?
«Sì, quand’ero più giovane mi piacevano le donne con gli occhi storti o con l’apparecchio ai denti. La perfezione è un’idea, non esiste davvero; sono le cose imperfette a fare la differenza».
Ti sei ispirato a qualche coreografo per il tuo ruolo?
«Prima di tutto a Balanchine. E poi a Michael Bennett, con cui mio padre ha lavorato quando era giovane. Ha diretto AChorus Line, Dreamgirls, Ballroom. Era un amico di famiglia, credo di aver visto il suo A Chorus Line 45 volte, perché mio padre interpretava il ruolo del produttore inglese. Micheal era Thomas, l’unica differenza è che era gay. E fu uno dei primi a morire di Aids, negli anni ’80. Un professionista bravissimo, molto duro coi ballerini, ma solo perché la danza era tutto ciò che aveva nella vita. Forse è questo il motivo per cui è difficile trovare perfezioniste donne, specialmente se sono madri. Quando hai un figlio, devi scordarti il resto. Ecco perché noi uomini siamo così attaccati al nostro lavoro: è l’unico modo per realizzarci».
Il tuo personaggio nel film è un maestro molto pressante. Tu come sei?
«Non mi sento così. Prima di tutto non credo di avere niente da insegnare a nessuno e poi tendo a reagire in maniera anche un po’ violenta quando le persone fanno pressione su di me. Molte persone hanno bisogno di una figura paterna che li sproni, io no. Ogni volta che mi sono ritrovato a lavorare con qualcuno che mi stava troppo col fiato sul collo, me ne sono allontanato».
Il mondo della danza da fuori sembra rosa, ma il film è quasi un horror…
«La danza è così dura, è terribile! Le ballerine sono bellissime, in scena, ma viste da vicino sono rovinate. I piedi sono storti, sanguinano sempre, hanno male alla schiena, le vene in rilievo. È una cosa così innaturale, ti rovina il corpo. Le mie figlie non faranno mai danza classica».
Quant’è colpevole Thomas di ciò che succede a Nina, al di là del rapporto che lei ha con la madre?
«Nina danza perché ha un problema: non il contrario. Quando leggo di attori che soffrono di dipendenze da droga o alcol, non credo che sia perché il loro è un lavoro duro, ma perché hanno un problema a prescindere. Per questo recitano, e poi lavorando in questo ambiente lo dimenticano...».
Che cosa pensi di una madre come quella del film (Barbara Hershey) che cerca di realizzarsi attraverso la figlia?
«Che è una cosa molto comune. Prima di tutto ti dico che mio padre non mi ha mai spinto a fare il suo lavoro. Anzi, ha cercato di evitarlo. È l’atteggiamento migliore, perché questo lavoro lo fai solo se sei molto motivato: può essere meraviglioso, ma se invece non va è tremendo. Perché vuol dire che vieni rifiutato per tutto ciò che sei: il tuo aspetto, il suono della tua voce... la gente ti dice “no”. E anche nel caso ti venga riconosciuta una qualità, devi mandar giù un sacco di merda prima che accada. Quindi, devi farlo per te stesso. Anche mia sorella fa l’attrice, e le dico sempre: “Stai sul palco, lavora, recita, perché più tempo passi a lavorare, meno ti potranno dire cosa devi fare”, e non ti importerà dei loro consigli, visto che ne saprai più di chiunque altro. Recitare è una cosa artigianale, come mettersi a fare le scarpe».
E tu che tipo di padre sei?
«Non credo che forzare le cose sia giusto. Mai. Ogni volta che lo fai, di qualsiasi cosa si tratti, fa male. Quindi non sarò mai così con le mie figlie. Specialmente in senso fisico: quando forzo troppo il mio corpo, sento dolore ovunque. La cultura giudaico-cristiana insegna che bisogna soffrire perché una cosa riesca bene. È una stronzata, ma ci ho messo 40 anni per capirlo».
Girerai un film con tua moglie (Monica Bellucci, ndr) a Rio. Come mai lì?
«Forse non sei mai stata a Rio, altrimenti capiresti... La storia ha luogo durante il Carnevale. Uno dei miei film preferiti è Orfeo negro, sono andato in Brasile per 20 anni, parlo meglio il portoghese che l’italiano. Nel 2009 ho anche girato un film lì, À deriva (di Heitor Dhalia): l’unico modo per restare lì per sei mesi era lavorarci. Questo film uscirà per il Carnevale del 2012: nel 2010 abbiamo cercato le location, fatto scuola di samba, poi gireremo».
RAFFAELLA GIANCRISTOFARO