
Se non sbaglio, il mondo del ballo non le era del tutto sconosciuto. «Mio padre era un attore e un ballerino e sono cresciuto in quel tipo di cultura. A 16 anni, poi, alla scuola circense alla quale mi ero iscritto, se volevi fare acrobazie e usare cavi e trapezi dovevi prendere lezioni di danza. L’insegnante era una ballerina russa e le lezioni mi coinvolsero a tal punto che mi convinsi che, nella mia carriera futura, posizioni e postura avrebbero avuto grandissima importanza. Per sette anni continuai a frequentare la sua classe. Non perché volessi diventare un ballerino, ma perché ero convinto che un attore dovesse essere capace di fare tutto».
Peccato che nel film non abbia sfruttato questa sua abilità! «Non ballo, ma dovevo essere un coreografo credibile. E il mio passato mi ha sicuramente aiutato a esserlo».
A chi si è ispirato? «Da giovane ho avuto la fortuna di lavorare con Michael Bennett, il regista e coreografo di A chorus line, ma anche di Dreamgirls,Ballroom e moltissimi altri spettacoli. Era un amico dei miei genitori e mio padre aveva collaborato con lui. Nel mio Thomas Leroy c’è dunque molto di Bennett. Soprattutto mi sono ispirato a lui per il suo rapporto di potere con le ballerine».
In “Il cigno nero” la competitività tra i ballerini è estrema. Lo è anche tra gli attori? «Probabilmente, ma a noi non viene chiesto nulla in confronto a ciò che si pretende da chi danza. Un ballerino deve allenarsi ogni giorno per molte ore; un attore, invece, per una parte può anche utilizzare le proprie esperienze personali. Inoltre la vita artistica di un ballerino è cortissima: dai 17 ai 30 anni circa. Poi diventi vecchio, perché a lungo andare il corpo risente della pressione a cui è sottoposto. È naturale, quindi, che ci sia una forte rivalità e che l’ambiente sia estremamente competitivo».
Il regista del film, Darren Aronofsky, ha affermato che sul palcoscenico il direttore artistico è una specie di semidio. È così che si è sentito? «Come un dio? Nooo» (si schermisce). «Ma capisco che cosa intende. Lo sa perché i registi sono quasi tutti folli? Perché hanno la sindrome del semi dio. Regnano sovrani per la durata di un film, ma poi tutto finisce. Hanno una visione, la trasformano in realtà, ma poi devono accettarne la fine. Il segreto per non soccombere a questa sindrome? Semplice: avere un grande senso dell’umorismo».
Natalie Portman e Mila Kunis hanno dovuto trasformare il proprio corpo seguendo durissimi regimi dietetici e fisici. E lei? «Era un inferno! Per loro è stata davvero dura. In particolare per Natalie Portman, che ha voluto essere coinvolta al 100 per cento. E diventare davvero una ballerina classica. Si allenava prima di iniziare a girare, durante le pause, finite le riprese. La sua determinazione è davvero impressionante. Per me è stato diverso. Ho incontrato Mikhail Baryshnikov, ho dovuto rispolverare quello che avevo imparato tornando a fare esercizi alla sbarra, sono andato all’Opera, ma questo è tutto».
Da giovane era convinto che un attore dovesse saper fare qualunque cosa. La pensa così anche adesso? «Tutti gli attori che ammiro mostrano un certo distacco nei confronti della professione e sono convinto che anche la pigrizia abbia i suoi vantaggi. Confesso, però, di sognare spesso quello che sto facendo. In altre parole: se consciamente penso sia sano mantenere un certo distacco, inconsciamente credo nella massima concentrazione».
C’è chi dice che l’arte, in ogni sua forma, offra una via di fuga, ma anche di riscatto e redenzione. «Sono d’accordo. Ma si tratta solo di un aspetto della professione. Avere interpretato una lunga serie di malvagi, per esempio, non deriva dal fatto che abbia voluto esprimere la violenza che sentivo dentro. Fare l’attore è un mix: quello che siamo, quello che abbiamo paura di essere e anche quello che sogniamo di essere».
Tra film francesi d’autore e blockbuster americani, lei sembra occupare una posizione privilegiata. «Mi considero molto francese. Anzi, molto parigino, con i pregi e i difetti che ciò comporta. Ma i miei genitori erano spesso in viaggio e io sono cresciuto tra Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Mia madre si è trasferita a New York quando ero molto giovane e mi è rimasta la tendenza ad andarci per assorbirne l’energia, per esserne ispirato. Perché quando da New York rientro a Parigi, è come tornare nel paese dei Puffi» (ride). «Mi sembra normale viaggiare seguendo il lavoro. In America, in Brasile, in Italia. E mi piace. Mi fa sentire libero».
Per convincerla a dire di sì, un ruolo deve… «Avere alle spalle un grande regista e avere personalità. Essere diverso e avere qualcosa che mi catturi».
È vero che, tra i suoi progetti futuri, c’è il remake di un classico francese quale “Fantômas”? «È vero quanto può esserlo un progetto da 70 milioni di euro. Fino a quando non inizieranno le riprese, non ci sono certezze. È vero, però, che stiamo sviluppando il copione».
Un altro cattivo, dunque. Come mai è così attratto dal lato oscuro della vita? «Non lo sono! Quando lavoro sono come un bambino. Mi diverto. E divento serio quando viene richiesto. Ma quando torno a casa, dalle mie figlie, tutto viene dimenticato. Non sono un attore tormentato, lo ero da giovane, quando avevo bisogno di spendere tutta la mia energia nel credere in quello che stavo facendo. Con l’esperienza mi sono reso conto che tutto accade in un istante. Non hai bisogno di lavorare su te stesso 24 ore su 24 per girare una scena. E poi, con l’avanzare degli anni, si entra in maggiore contatto con le proprie emozioni».
Riesce a “disconnettersi” anche con una moglie attrice? «A meno che non abbiamo un progetto comune. Cosa che, in realtà, accade abbastanza spesso. Cerchiamo comunque di lasciare il lavoro fuori dalla porta. Certo che se quando torno a casa, navigo su internet e la vedo baciare De Niro (sul set di Manuale d’amore 3, ndr)...».
Chi legge le storie della buonanotte a Deva e Léonie, lei o Monica? «Io. Ma non le leggo: le invento! E alla fine, il coniglietto muore sempre in un lago di sangue...».
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