di Federico Vacalebre
La regina di Sanremo aveva salutato il suo pubblico due Festival fa. Carmen Consoli aveva introdotto sul palcoNilla Pizzi rileggendo con grazia mediterranea «Grazie dei fiori», nel 1951 prima canzone regina della kermesse, allora radiotrasmessa.
L’ictus che l’aveva colpita aveva lasciato segno nell’eloquio più che nel canto, intonare «Vola colomba», nonostante l’abito di Molaro con strascico lungo cinque metri, per lei era quasi naturale, normale. Era il 1952 quando fece il bis, sempre a Sanremo, con quel pezzo. «Ho imparato molto dalla sua voce, ed è giusto ammetterlo, finalmente», scrisse Mina su «La Stampa», a chiudere il cerchio per cui Adionilla (Sant’Agata Bolognese, 16/4/1919) da signora indiscussa della canzone del dopoguerra era diventata simbolo del cantare più retrivo, totem/capro espiatorio da abbattere.
Nilla, scomparsa ieri a 91 anni, si fa notare ai primi concorsi a 18 anni, a 20 sposa Guido Pizzi (solo omonimo) per vederlo partire allo scoppio della Seconda guerra mondiale e ricomparire solo quando lei sarà ormai famosa e lui avrà al fianco un’altra donna. Debutta ai microfoni dell’Eiar con «Casetta tra le rose», i fiori segneranno una carriera trionfale grazie alla sua voce fresca e sicura, musicalissima, lontana dal barocco melodrammatico della sua terra. Adottata (non solo artisticamente) dal maestro Cinico Angelini, inizia la gavetta con incisioni poco memorabili, tra cui, per restare in campo floreale, «Quel mazzolin di fiori» e «Tulipano d’oro». Ma l’Eiar la cancella dall’etere, e quindi dalle sale d’incisione: per il regime fascista la sua ugola è troppo moderna, quasi sovversiva, soprattutto se abbinata alle sue forme.
Si cimenta con lo spagnolo e il napoletano («Dove sta Zazà», «Finestra a Marechiaro», «Acquarello napoletano»), lancia Carosone («Cocoricò»). Dopo tanti pseudonimi e duetti, ormai popolare, nel 1950 registra a suo nome, spesso con il Duo Fasano e Luciano Benevene.
Nel 1951 nasce il Festival di Sanremo, «e nasco anche io», ripeteva lei sorridendo: protagonista con Achille Togliani, le Fasano e Angelini, presenta nove canzoni, vince con «Grazie dei fiori». Panzeri, Testoni e Seracini firmano una beguine con cambi di ritmo ed echi di swing per una storia d’amore altoborghese velata di disincanto. Si piazza anche al secondo posto con «La luna si veste d’argento», in coppia con Togliani, con cui cesella anche «L’eco degli abeti».
Incoronata «signora della canzone», alterna melodie all’antica a motivetti scacciapensieri: «I sogni son desideri», «Anema e cose», «Desiderio», «Canzone amara», «Core ’ngrato», «El marinerito». Aristocratica ma mai snob, Nilla scivola languida sulle note più profonde, i toni scuri le vengono naturali, non cerca l’effetto, è maestra di fraseggio, legature, smorzature, chiaroscuri, coloriture gioiose e sdrammatizzanti.
Nel ’52 torna a Sanremo con 7 canzoni, ed è prima («Vola colomba», retorica patriottarda di Bixio, Cherubini e Concina), seconda («Papaveri e papere», motivetto protodemenziale ma in qualche modo anche «politico» di Rastelli, Panzeri e Mascheroni) e terza («Una donna prega»): il record resterà insuperato, il Festival non è ancora la kermesse che ferma l’Italia, lo diventerà anche grazie a lei.
Ormai è la regina della canzone: nel ’52 vince anche il Festival di Napoli con «Desiderio ’e sole» e si piazza terza con «Margellina». Ruba canzoni a Edith Piaf («Padam padam»), stringe una relazione d’amore e d’arte con Gino Latilla, debutta al cinema con «Ci troviamo in galleria» di Bolognini. Latilla tenta il suicidio per lei, poi Carla Boni le ruberà uomo e scettro, i rotocalchi non scriveranno d’altro.
Al Festival di Sanremo del ’54 è «la grande assente», ma lei si rifà al fianco della chitarra di Mario Gangi («Statte vicino a me»), del complesso di Franco Riva e dell’orchestra di Armando Trovajoli, frequentando molto e bene il repertorio napoletano («Me so’ ’mbriacato ’e sole», «’Nu quarto ’e luna», «Luna caprese» che portà al trionfo piedigrottesco con otto richieste di bis). I fans la adorano e si scambiano le «cartoNille».
Quando parte in tour per l’America le riviste pubblicano la sua vita a puntate, quando canta in Africa le regalano un elefante. Porta al successo «Maruzzella», «Suspiranno mon amour» e soprattutto «L’edera», beguine-bolero avvinta a una melodia al tramonto che arriva seconda, dietro «Nel blu dipinto di blu», al Sanremo ’58. Una svolta epocale, un cambio di consegne, la canzone d’autore (pre)pensiona il belcanto all’italiana, i vecchi scarponi e le barche che tornavano sole.
Ancora Napoli, tra il Festival di Sanremo ’59 («Sempre con te» di Murolo, che divide con Fausto Cigliano») e quello di Napoli (dov’è terza con «Vieneme ’nzuonno» e Sergio Bruni).
Nel ’60 l’ultimo Sanremo, con «Colpevole»: i tempi stanno cambiando, la canzone pure, lei sceglie l’esilio dorato di Acapulco dove gestisce un night per miliardari. Ma non smette mai di cantare. Anche dopo il ’68, quando è diventata il simbolo della «canzone borghese» da abbattere, fa centinaia di serate l’anno.
Nel ’72 registra un bell’album sui canti dell’emigrazione, nell’81 presenta Sanremo al fianco di Cecchetto e la smutandata Vallone, nel ’94 è in gara all’Ariston con la Squadra Italia, nel 2001 è testimonial del Gay Pride a Torre del Lago (Lucca),alla fine della carriera le tocca Lele Mora come impresario.
«Nessuno mi ha dato niente, tutti mi hanno tolto qualcosa», raccontava.