RECENSIONE DI BIOPHILIA. Perchè è un fallimento.

Biophilia uscirà ufficialmente il 10 di ottobre nei negozi, ma noi internauti lo stiamo già ascoltando, come spesso accade, blog e forum anticipano dal basso opinioni sui consumi culturali.
Bjork è sempre stata arty. Il suo regno è il midcult, luogo principe di chi vuole distinguersi dalla cultura popolare ma non ha abbastanza coraggio o capacità per sostenere l’impegno che richiede l’autentica avanguardia. Biophilia, il nuovo non-album, suona come il fragoroso tonfo di chi si è arrampicata per l’ennesima volta su vette troppo pretenziose. Mi rendo perfettamente conto che questa mia insolita presentazione suoni dissacrante se comparata agli articoli pubblicitari scritti per rafforzare la percezione di un’artista amatissima – ma poco ascoltata . Giustamente apprezzata per un meritevole passato artistico, Bjork, viene spesso presentata come ultimo baluardo del genio romantico ottocentesco che non scende a compromessi con l’industria commerciale, la “dura e pura” del panorama indipendente.
Biophilia, quattro anni dopo volta, si presenta come un compendio di tutti i difetti di B.: la pretesa di puntare all’universale facendo sempre riferimento a se stessa, le strutture musicali incompiute e farraginose, senza unità né fluidità sembrano un motore ingolfato e una voce incerta sono punti deboli di una donna senza più idee. Il cantato è a metà strada tra manierismo e dilettantismo, con note alte sgraziate e faticosamente raggiunte, e ritmi fiacchi per agevolare una sfiatata respirazione asmatica; cos’è questa se non la nemesi meritata a colei che da sempre si fa vanto di cantare in modo istintivo senza un necessario training vocale?
Persino le applicazioni che sostituiscono la forma album, scritte da programmatori di fama internazionale come Scott Snibbe, si sono rivelate strumenti utili solo a catatonici e scimmie. Eppure il progetto in potenza metteva in crisi il concetto di disco come unità ed entità chiusa e immodificabile, che apriva la porta al remix, all’opera aperta e alla nuova fruizione. Poteva essere, e lo può ancora, un modo di svincolarsi dalla forma album che ha predominato per tutto il novecento.
Poi l’annuncio del disco, e lì abbiamo intuito che si tentava la furbata di accontentar tutti. Quando abbiamo intravisto la parrucca rossa dell’autrice travestita da pagliaccio con tutti i suoi clichè fuori tempo massimo non abbiamo avuto più dubbi: Bjork è bollita.
Dopotutto, basta una distratta lettura ai testi delle canzoni per rendersi conto dell’animo hippy posticcio dell’islandesina: “With our hearts/We chisel quartz/To reach love/” o anche “the earth like the heart/slopes in its seat ” o frasi che sembrano scritte in una casa di cura di montagna: “When your eyes/pause on the ball/that hangs on the third branch from the sun” roba che sembra uscita dalle “diaboliche” menti creative di Erri De Luca e Mauro Corona, banalità utili solo alla sconfortante (in)cultura new age.
Lascio la disamina di ogni canzone alla bulimia del web che saprà entrare nel dettaglio. Da parte miaottimisticamente credo che la bravura di B. è nel ridare vita a queste canzoni modificandole durante i live (esperienza che nega la mummificazione dell’opera registrata). Non trovo alcun conforto nell’ascolto di un disco che richiede gratuite e crudeli sofferenze. Citando B. mi chiedo: “Why this sacrifice?”