Per diffondere lo stile eco serve Meryl Streep

Un testimonial famoso è l'unico modo per spingere le aziende italiane all'approccio green.
Di fronte a una ricerca di Camera nazionale della moda da cui emergeva come l'ecosostenibilità sia ancora praticata da poche aziende del settore, mi sono domandata se e quanti testimonial sono necessari perché responsabilità sociale e ambientale si trasformino da dovere a interessante opportunità.
Siamo onesti: un questionario a cui risponde il 30% degli associati di Camera moda, in rappresentanza della metà del fatturato complessivo rappresentato, e di cui il 68% dichiara di «voler investire in ecosostenibilità», dunque di non averlo ancora fatto, dimostra che il settore italiano vive la social responsibility come un'immane scocciatura.
E per di più costosa: non a caso, tranne colossi come Ermenegildo Zegna o come Gucci, che sta applicando protocolli etici internazionali a ogni fase del processo, compreso quello distributivo e architettonico, è la filiera ad aver fatto gli investimenti più significativi in questo aspetto, cruciale, della produzione.
TINTORIE A IMPATTO ZERO. L'ha fatto anche in silenzio. Pochissimi sanno per esempio che le principali tintorie italiane, cioè le maggiori tintorie mondiali, lavorano sostanzialmente a inquinamento zero, e che il numero uno mondiale della produzione di denim, la turca Isko, fornitore di tessuto a chiunque - e per chiunque intendo Armani e Dolce&Gabbana, Levi's e Diesel - ha avviato da anni un procedimento di riciclo totale delle acque di lavaggio (per produrre un paio di jeans ne servono 70 litri).
MA LA MODA È POCO VERDE. All'altro capo della catena produttiva, però, i casi significativi sono piuttosto rari: Puma (ancora gruppo Ppr come Gucci, bisogna dire), che grazie a una collaborazione con l'Università di Brighton ha lanciato un programma di ottimizzazione del packaging (la sua clever little bag, la scatoletta intelligente che ha permesso di ridurre il cartone e la carta dell'imballaggio di qualche milione di quintali è stata apprezzata anche per il suo design), e poi H&M, Levi's e Mothercare, il Prénatal inglese.
Più i grandi gruppi rispetto ai piccoli produttori che, se interrogati sull'etica, evocano la «qualità della vita in azienda», quasi fosse un elemento discriminante, insieme con lo sviluppo industriale «della propria zona di appartenenza», che va indubbiamente nella logica di un approccio slow fashion, ma certo non è risolutiva.

L'82% dei clienti si dichiara interessato ad acquistare prodotti eco
L'impressione è che per convincere i tanti dubbiosi o riottosi si renda necessaria una precisa richiesta da parte del mercato: l'82% dei clienti della moda, secondo gli stessi produttori, sarebbe interessato ad acquistare prodotti «dalle spiccate qualità ambientali e sociali».
Non a ogni costo, però: ho la netta impressione, e me lo conferma una ricerchina autonoma ed empirica presso i due-tre tristissimi negozi di eco-fashion davanti a cui passo ogni giorno lungo la strada per casa, che senza tre caratteristiche fondamentali - la qualità, l'estetica e il prezzo - anche quell'82% di potenziali interessati scenderà al 30%.
Facciamo un secondo esercizio di sincerità: fino a oggi, la definizione di moda ecosostenibile evocava scarpe informi e camicioni dai colori improbabili indossati da veterofemministe ignare dell'esistenza del parrucchiere.
LE INGLESI FANNO TENDENZA. Poi è arrivato il drappello delle inglesi: Katherine Hamnet, ecosostenibile dagli Anni '80, un caso a parte; ma anche Vivienne Westwood, Elizabeth Brunner, Orsola de Castro, cofondatrice del progetto Esthetica (etica più estetica), che gode del patrocinio delle maggiori accademie inglesi e in particolare del London college of fashion, quindi Stella McCartney, vegana convinta, creatrice di abiti e accessori supersexy e superetici (oddìo, sarà un caso se anche lei fa parte della holding francese Ppr?).
Un po' cari, però e purtroppo. In attesa di capire quanto H&M darà seguito agli studi in corso con il London college of fashion, va fatto tesoro dei due-tre personaggi di fama mondiale che hanno accettato di sostenere la causa: Meryl Streep, che meno di un mese fa ha ritirato l'Oscar per The iron lady indossando un abito di Lanvin eco-certified, mentre Livia Firth, la moglie italiana di Colin Firth, produttrice di moda eco, sta promuovendo laGreen carpet challenge: a Los Angeles è apparsa in un Valentino in pet riciclato e, a quanto mi risulta, nelle prossime settimane dovrebbe partecipare a diversi incontri di sensibilizzazione, anche in Italia.
SPETTACOLIZZARE L'APPROCCIO GREEN. La spettacolarizzazione dell'approcciogreen potrebbe essere utile anche in Paesi ancora lontani da questo approccio fra cui la Cina, dove, secondo la società di ricerca Made-by, sarà ancora necessaria una generazione perché la sostenibilità ambientale diventi un tema di primo piano e soprattutto condiviso a livello popolare, ma già tutti estremamente sensibili alle scelte di stile di attori e star internazionali.
La personalizzazione, l'endorsement famoso, potrebbe rivelarsi utile anche in Italia, tutto sommato. Se la storia delle Tod's subì una svolta nel momento in cui i gommini vennero adottati dall'Avvocato, non c'è ragione per non credere che un'adozione altrettanto prestigiosa non otterrebbe lo stesso successo. Il problema è trovare il testimonial. Il loden, in effetti, è abbastanza sostenibile. Non troppo modaiolo, però.