Hanno scelto per nome la fase più intensa dei sogni. Sono cresciuti tra party in chiesa e scorribande a bordo di un furgone. E hanno coniato un sound inconfondibile, che unisce il recupero della tradizione americana con uno slancio new wave e un melodismo pop. Storia della band di Michael Stipe, dagli esordi underground al grande successo mondiale.
"Saranno originali tra dieci anni come lo sono ora". Mai profezia musicale fu più efficace di quella che il "New York Times" dedicò al debutto di quattro ragazzotti di Athens, Georgia, conosciuti fino ad allora solo nel circuito universitario degli Stati Uniti. Avevano scelto un nome intrigante, Rem, da "rapid eye movement", il movimento rapido che l'occhio compie nella fase del sonno in cui si formano i sogni. Era il 1983: tempi difficili per l'industria rock a stelle e strisce; le classifiche vivevano soprattutto di importazioni britanniche da quando, tra il 1978 e il '79 era esplosa la new wave. Quell'album degli Rem, Murmur, giungeva come una manna. La celebre rivista musicale "Rolling Stone" lo consacrava "disco dell'anno", davanti a campioni di vendite come "Thriller" di Michael Jackson e "Synchronicity" dei Police. Per gli Rem (pronuncia: Ar-I-Em) era arrivato il momento di smettere i panni di garage band, di scendere dal camioncino verde "Dodge", modello '75 con cui avevano girano l'America senza un dollaro in tasca. Era arrivato il successo.
Rock nella chiesa.
Per capire l'essenza degli Rem bisogna partire dalle loro radici, da quella Athens - sessantamila abitanti di cui ventimila studenti - già patria degli eccentrici B-52's. Una terra impregnata della letteratura sudista di William Faulkner e di una ricca tradizione di fiabe noir. "La Georgia sembra un deserto culturale: la attraversi in auto e vedi solo una fila di McDonald's e centri commerciali. Ma se guardi due isolati più indietro, troverai la vera natura delle cose", ha detto una volta Michael Stipe, leader della band che annovera Peter Buck (chitarra), Bill Berry (batteria) e Mike Mills (basso). Ad Athens, gli Rem sono l'attrazione delle feste che riempiono fino al campanile la vecchia chiesa abbandonata di O'Connee Street. Fanno un pop esagitato e selvaggio, stile primi Who, con qualche citazione deiByrds. Ma la loro musa è Patti Smith. "Mi mise ko - ricorda Stipe - Avevo delle schifose cuffiette di mio padre, e mi sedevo tutta la notte a mangiare ciliegie e ad ascoltare incantato il suo 'Horses'. Cazzo, come fa a fare questa musica, è incredibile, ripetevo dentro di me". Non poteva immaginare Michael che un giorno la grande sacerdotessa del rock avrebbe cantato con lui nella emozionante ballata "E-Bow The Letter" ('96).
A differenza di tante altre college band, gli Rem non temono le umiliazioni. Tra l'80 e l'82 girano l'America. Ad Albuquerque, Nuovo Messico, suonano in un locale per "single", pieno di bulli e prostitute, rimpiazzando uno show di spogliarelliste: scoppierà una rissa. Si esibiscono anche nella base aerea militare di Wichita Falls, Texas, ma l'accoglienza dei marines non è più tenera: "Volavano arance sul palco - racconta il chitarrista Peter Buck - e ti passavano bigliettini con messaggi come: 'Se suonate ancora una canzone come questa vi pestiamo, brutti froci!'". La prima uscita discografica del gruppo, dopo il brioso singolo "Radio Free Europe", è l'EpChronic Town (1982), in cui già emergono alcuni brani particolamente graffianti, come l'energica "1,000,000" (con più d'una reminiscenza punk), il carillon psichedelico di "Carnival Of Sorts" e la orientaleggiante "Gardening At Night". Il disco, tuttavia, non supera i ristretti confini del circuito indie. Ma già all'esordio su 33 giri, con Murmur, gli Rem diventano il gruppo del momento negli Stati Uniti, l'unico capace di fare musica "underground" conquistando il pubblico. È proprio con questo lavoro che il concetto di "musica alternativa" troverà negli Stati Uniti un formidabile veicolo di diffusione, cominciando a influenzare, di lì a poco, anche la produzione mainstream.
Prodotto da una volpe degli studios come Mitch Easter, Murmur sfodera una dozzina di ballate senza tempo, praticamente perfette. Le chitarre arpeggiate e folkeggianti di Peter Buck, il basso corposo di Mike Mills, il forte contrappunto ritmico e la percussione country di Bill Berry, le cantilene stralunate, intonate nel suo tipico registro nasale da Michael Stipe, contribuiscono a creare un impasto di acustica ed elettronica, melodia ed energia, rock rurale americano, psichedelia e punk. Attingendo alle fonti più pure della tradizione americana, al roots-rock e al folk d'annata, gli Rem rigenerano quei suoni, aggiornandoli al tempo del post-punk e del pre-grunge. Chitarre armoniche e linee melodiche semplici e aggraziate tratteggiano "Radio Free Europe". Vocalizzi dolenti, umori psichedelici e continui cambi di tempo segnano "Pilgrimage", in cui più forte si avverte l'impronta dei maestri, specie nell'elaborazione delle melodie. Ma il vero colpo da ko del disco è "Talk About The Passion", il brano che diventerà quasi il prototipo della "Rem-song": le chitarre cristalline, il fascino immortale del jingle-jangle, il canto biascicato ma incredibilmente "musicale" di Stipe, gli stacchi di batteria, il battito in levare, le melodie semplici ed eleganti. Le armonie vocali sono ancora protagoniste sulla scalpitante "Moral Kiosk", mentre la lenta "Perfect Circle" poggia su armonie dimesse e minimali. A virare verso sonorità più marcatamente country-rock è "Catapult", introdotta da un poderoso drumming, mentre "Sitting Still" si veste d'una melodia accattivante, di stampo pop. L'influenza punk si avverte in un brano come "9-9", propulso da un ritmo ossessivo. Le voci, abbinate al suono folk della chitarra, tornano infine protagoniste nella romantica "Shaking Through", con Stipe ancora sugli scudi. Murmur è la pietra angolare di tutta la produzione successiva degli Rem e di tanto indie rock che verrà.
Aspiranti leader mondiali.
Il successo è prosegue con i dischi successivi, seppur spesso meno continui e più frammentari. Gli Rem si rivelano soprattutto una straordinaria macchina sforna-singoli, un gruppo "da singoli" (o, quantomeno, "da canzoni") più che da album. Il livello complessivo della loro produzione, comunque, resta sempre altissimo per un gruppo che si pone idealmente al crocevia tra rock alternativo e mainstream.
Il secondo album, Reckoning (1984) fa leva soprattutto sulla malinconia del bel singolo "Pretty Persuasion" e sullo spleen trasognato delle altre due ballate doc, "So. Central Rain (I'm Sorry)" e "(Don't Go Back to) Rockville", in bilico tra country-soul e pop. Il tentativo di accentuare il recupero della tradizione americana, del folk, del roots-rock appare piuttosto fuori fuoco. E se nel complesso la tracklist è meno ispirata dell'album d'esordio, cresce, invece, la forza del canto di Stipe, che riesce a intonare le sue cantilene in modo ancor più fluido e poliedrico, affermando uno stile del tutto unico nel panorama rock del periodo.
Prodotto a Londra da Joe Boyd, Fables Of The Reconstruction (1985) vira verso un sound più cupo e riflessivo, perdendo un po' di vista il melodismo (e il ritmo) scintillante dei lavori precedenti. Fanno eccezione la filastrocca country di "Driver 8", la ballata rustica di "Grow The Rushes" e l'aspra "Auctioneer (Another Engine)", che alzano leggermente il livello di un disco troppo spesso immerso in un compiaciuto manierismo (di cui è emblema l'insipida "Can't Get There From Here"). E non contribuisce alla riuscita dell'opera la scelta di arrangiamenti più corposi (con archi e sax). Gli Rem sembrano a un punto di svolta della loro carriera: possono diventare una delle mille indie band che è riuscita a imbroccare un album e poi si è persa nelle nebbie dell'underground, oppure alzare la testa e guardare più in alto, cercando di rivitalizzare il magico sound dell'esordio e sfondare definitivamente. La scelta di accentuare l'impegno sociale e politico nei testi, unita a un recupero del loro mood più nostalgico e struggente si rivela subito una mossa indovinata. "Uniamoci e costruiamo un nuovo paese", cantano nell'inno ecologista "Cuyahoga", in cui le acque rosse dell'Apalachee diventano fiumi di sangue degli indiani massacrati dai bianchi, mentre il fiume Ohio si avvelena di scorie industriali. E' il brano più toccante di Lifes Rich Pageant (1986), che segna una netta ripresa rispetto ai due lavori precedenti. In "Begin The Begin" il riff di Peter Buck è al limite tra morbidezza e distorsione, con guizzi country-rock a stento tenuti in carreggiata, su cui la voce di Michael Stipe saltella agile e corposa. Con la successiva "These Days" si scatena un galoppo al cardiopalma, con Mills che trova modo di dar vita a un controcanto da epopee e polvere da sparo. Il singolo "Fall On Me" è una tipica ballata circolare che attinge tanto alla canzone dei 50 quanto al languore psych-folk di Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young, stupenda nel breve doppio arpeggio introduttivo ed esemplare nella crescente linearità del verso che incontra un commosso ritornello. "Hyena" si lascia contaminare da archi, piano e cori cedendo a un irrimediabile sentimentalismo. Il quasi strumentale "Underneath The Bunker" trasuda follia latina, con fisarmonica e chitarra tex-mex. Un arpeggio insistito e dimesso è il filo (spinato?) a cui si appende la melodia spettrale di "The Flowers Of Guatemala". L'intro country di "I Believe" è il presupposto per un'altra cavalcata sull'onda emozionale delle liriche sciolte di Stipe e della chitarra di Buck, in compagnia di una fisarmonica incantata. Ancora cuori sul cemento con "What If We Give It Away?", l'ennesimo prodigio melodico su un ordinario midtempo. Una lingua di feedback e siamo proiettati nella frenesia di "Just A Touch", piano alla Jerry "The Killer" Lee Lewis e chitarra a metà strada tra Sonics e Aerosmith, un organo-ottovolante tra i raptus di basso e batteria, con Stipe che getta alle ortiche ogni parvenza di impostazione. La nenia di "Swan Swan H" è la vetta drammatica dell'album, uno sbocco di dolore trattenuto sul dialogo teso di due chitarre acustiche, con l'ennesimo respiro leggendario della fisarmonica a introdurre il sapore acre e lontano della tradizione. Si conclude con l'unico pezzo non firmato da Berry-Buck-Mills-Stipe: è "Superman", un inno gioioso ma con un retrogusto amarognolo.
Document (1987) segna l'inizio della seconda grande stagione degli Rem. Ormai consapevoli dell'affiatamento raggiunto e della maturità del loro sound, i ragazzi di Athens riescono finalmente a mettere a fuoco la cosa che riesce loro meglio: le canzoni, i ritornelli, gli hook indispensabili per catturare il pubblico e attirarlo per sempre a sé. La luminosa produzione di Scott Litt infonde una buona dose di energia rock alle loro sonorità. E Stipe cesella anche la sua prima (presunta) canzone d'amore, la struggente "The One I Love" (in realtà dopo le prime due strofe - "Questa è colei che amo/ colei che mi sono lasciato dietro" - il terzo verso recita "un semplice oggetto per occupare il mio tempo", tradendo sarcasticamente ogni idea di sentimento). Marchiata da un giro melodico da ko immediato e da un ritornello tra i più leggendari del loro repertorio, sarà il primo singolo degli Rem a entrare nella Top Ten statunitense e resterà una delle grandi ballate pop del decennio. Ma sono tante le gemme a brillare in questo album. L'apocalittica "It's The End of the World As We Know It (And I Feel Fine)", anzitutto, con le sue chitarre jingle-jangle e un ritmo degno di Bo Diddley, su cui Stipe snocciola il suo interminabile testo. E poi quella energica "Finest Worksong" (con chitarra quasi hard-rock e drumming marziale), che ironizza sulle contraddizioni dell'era yuppie, o ancora la spiazzante cover di "Strange" dei Wire, la sghemba invettiva contro il maccartismo a ritmi quasi funk-punk di "Exhuming McCarthy", o il folk-rock d'annata di "Disturbance At The Heron House". Gli umori psichedelici degli Rem si condensano soprattutto nella dolente "King Of Birds", mentre la ballata da fine del mondo di "Fireplace" vuole riportare l'attenzione sul "fuoco che distrugge e che purifica", tema dominante dell'intero album come raccontato da Michael Stipe. Sempre ironico, sagace, polemico (il titolo originario doveva essere "Last Train To Disneyland"), l'album è un nuovo trionfo e segna la fine della gloriosa stagione della Irs, la piccola etichetta che aveva accompagnato tutte le produzioni degli Rem fino ad allora e che si "sfogherà" pubblicando ben due raccolte, Dead Letter Office (con rarità e cover) e la più sostanziosa antologia Eponymous. Ma Stipe e soci sono ormai delle star e le major fanno a gara per ingaggiarli.
Rock'n'roll star.
Alla fine la spunta la Warner, con un contratto da capogiro: dieci milioni di dollari. Gli ex-squatter di O'Connee Street dettano alcune precise condizioni (controllo sul prodotto, possibilità di rifiutare interviste, show televisivi, concerti etc.), ma rischiano di farsi stritolare dall'industria del rock. Almeno inizialmente, non sarà così. Il primo album dell'era-Warner èGreen (1988), ovvero "verde" come "il colore degli ecologisti, ma anche dei dollari". Il messaggio è una sorta di riarmo morale di fronte al cinismo di quegli anni. L'ironia è sottile nella trascinante e magnifica "World Leader Pretend" ("aspirante leader mondiale"). E nella scatenata "Orange Crush" si parla di guerra chimica (da "orange agent", gli squadroni che tiravano il napalm sui civili in Vietnam). L'accattivante ritornello di "Pop Song 89" (con più di un'eco della "Hello, I Love You" dei Doors) è il rompighiaccio per le chart. "Stand" è la botta d'energia che s'insinua nel tepore caldo delle ballate acustiche (l'elegia campagnola per banjo e fisarmonica di "You Are The Everything", l'altro commosso bozzetto bucolico di "Hairshirt" e la sobria nenia di "Wrong Child", intonata da due voci asincrone). La chiusura è invece tutta nel segno della nostalgia, con l'evocativa "I Remember California", sospesa tra una melodica linea di basso e gli arpeggi finemente psichedelici e stranianti delle chitarre.
Al disco segue un lungo tour che consacra gli Rem come uno dei gruppi di punta del momento. E i riscontri commerciali cominciano a diventare sostanziosi: Green venderà oltre il doppio di Document.
Il boom internazionale.
Dal sostegno al Tibet oppresso alla lotta contro l'Aids, dalle battaglie ecologiste alle campagne per i democratici, intanto, gli Rem non perdono occasione per fare politica. "Negli Usa siamo etichettati come un gruppo radicale - raccontano - In realtà saremmo moderati, ma nell'era di Reagan e di Bush non restava che essere radicali". In piena guerra del Golfo, esplode l'album del trionfo mondiale, Out Of Time (1991), oltre 15 milioni di copie vendute, numero 1 nelle classifiche Usa e un'introduzione apocalittica: "Il mondo sta collassando intorno alle mie orecchie". Un verso che suona come una condanna. "Centinaia di migliaia di americani hanno protestato contro quella guerra, ma nessuno ne parlò", ricorda Stipe. Gran parte del successo del disco è dovuta a un avvio mozzafiato. Dopo un'introdi chitarra molto sixties, "Radio Song" prende corpo su robuste ritmiche funky, con un organo e una sezione d'archi a costruire una possente impalcatura sonora e Stipe a duettare con Kris Needs, alias KRS-1, rapperdei Boogie Down Productions. Ma non è niente in confronto alla traccia successiva: propulsa da un'ondata di archi (in questo caso sintetici) e da un ritmo incalzante, "Losing My Religion" si libra in una melodia avvolgente, che Stipe intona con piglio pessimista e desolato. È "la canzone" per definizione degli Rem, il trait d'union tra le loro origini "alternative" e il loro destino di rockstar, l'inno che (piaccia o no) li rappresenterà per sempre.
A mantenere alto il pathos contribuisce anche la successiva "Low", con un bordone d'organo, un clarinetto basso e una tetra sezione d'archi ad accompagnare i mesti vocalizzi di Stipe. Giunge così come un'improvvisa sferzata la radiosa "Near Wild Heaven", con cori festosi e un ritornello orecchiabile alla Beach Boys. Un clima d'euforia ribadito anche dalle altre due pregevoli canzonette che seguono, più ridondante "Endgame", più demenziale il valzer di "Shiny Happy People", con il duetto di Michael Stipe con Kate Pierson dei B-52's (e un video ancor più nonsense, che ne accrescerà il successo).
La seconda parte del disco è impreziosita soprattutto da "Texarkana",chorus memorabile per una ballata on the road dai tratti desertici e struggenti, interpretata con grande pathos da Mike Mills; ma brilla anche il chitarrismo graffiante di "Country Feedback", con un altro saggio di bravura di Stipe al canto.
Quasi frastornati dal successo, Stipe e soci si rifugiano nelle ombre diAutomatic For The People (1992), l'album più cupo e funereo della loro carriera. Dominato dall'ansia di vivere e dalla paura della morte, il disco resta sempre su sonorità soffuse, quasi da camera, sostituendo la briosità dei lavori precedenti con più maestosi e oppressivi arrangiamenti orchestrali, che portano in molti casi la firma di John Paul Jones dei Led Zeppelin. Il capolavoro è "Drive", litania scarna e commovente, che Stipe declama con piglio fatalista, accompagnato da uno dei più magici arpeggi di Buck, prima che la chitarra elettrica e una melodrammatica sezione d'archi prendano il sopravvento. "Drive" è quasi l'archetipo di questo nuovo sound dei Rem, prevalentemente acustico, quasi mai uptempo. Stipe sfodera una serie di ballate struggenti, dal soul desolato di "Everybody Hurts" alla sonata pianistica di "Nightswimming" fino alla dolente "Find The River", quasi una serenata country alla Fred Neil. La morte - si diceva - incombe dall'inizio alla fine: la folkeggiante "Try Not To Breathe" si ispira a Jack Kevorkian, ribattezzato "Dottor Morte" per le sue battaglia pro-eutanasia; la funerea "Sweetness Follows" racconta di un figlio che deve dare sepoltura ai genitori; mentre "Man On The Moon" e "Monty Got A Raw Deal" sono due omaggi ad altrettanti attori defunti, ovvero Andy Kaufman (il geniale e sfortunato comico che sarà poi interpretato sul grande schermo da Jim Carrey) e Montgomery Clift, anch'egli prematuramente scomparso (e già ricordato dai Clash nell'album "London Calling"). Unico sprazzo di allegria in tanta oscurità, quella giocosa "The Sidewinder Sleeps Tonite" che rifà il verso all'evergreen "The Lion Sleeps Tonight".
Quasi incarnato fisicamente dallo stesso Stipe, che in quel periodo appare sempre magro, pallido ed emaciato, Automatic For The People riflette la crisi esistenziale del leader degli Rem, combattuto tra il gusto per lastardom e il bisogno di preservare la propria identità, reso ancor più impellente dalla sua proverbiale timidezza. "Sono sempre stato paralizzato dalla mia insicurezza - racconterà -. Ma ho dovuto imparare a comunicare. Bisogna divertirsi a essere delle star, altrimenti rischi di rovinarti". E Stipe è stato al gioco quando ha affermato: "Sono sessualmente ambiguo, ma non chiamatemi bisessuale". Un'uscita che ha contribuito anche ad alimentare la leggenda che lo vorrebbe sieropositivo. "Non potrei stare meglio, se non ho mai smentito pubblicamente è perché non volevo ferire la sensibilità dei malati di Aids", preciserà nel '94. Il successo degli Rem, comunque, è in gran parte basato sulla suggestione del suo inconfondibile canto. "Il mio metodo - spiega - consiste nel ripetere all'infinito, come fanno i bambini, alcune frasi molto 'sonore' carpite alle persone, o nel riprendere motivi dell'inconscio collettivo". E poi ci sono i testi, spesso criptici, costruiti a flash, pieni di personaggi e giochi di parole. "Sono stanco di scrivere canzoni ricche di contenuti perché poi nessuno le capisca", sbotterà un giorno in un eccesso di presunzione.
Quando nel 1994 esce Monster, la sorpresa è forte. Gli Rem, infatti, si ridestano di colpo dai languori depressi del disco precedente, sfoderando una delle loro performance più dure e irruente di sempre. I più maliziosi faranno due più due e metteranno in relazione la svolta con il contemporaneo boom del grunge di Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden (e in effetti fu proprio in quel periodo che i contatti tra Stipe e Kurt Cobain si intensificarono; e il leader dei Nirvana si suiciderà proprio durante lesession di registrazione del disco). Gli altri semplicemente riconosceranno agli Rem il coraggio di aver voluto ancora voltare pagina. Fatto sta cheMonster è un disco capace ancora di emozionare per la rabbia e l'energia che riesce a sprigionare. Il singolo "What's The Frequency, Kenneth?" scodella subito un ritornello da acchiappo e un riff mozzafiato. Sono addirittura i Sonic Youth, luminari del noise, a ispirare la ruvida "Crush With Eyeliner" (con lo stesso Thurston Moore che ingaggia un corpo a corpo con Buck), mentre "I Took Your Name" e "Star 69" sembrano quasi ridestare il rock brado e lascivo degli Stooges. Il reggae-rock dei Police lascia invece il proprio inconfondibile segno sull'orecchiabile "Bang And Blame", resa però peculiare da un eccentrico canto in falsetto alla Marvin Gaye. La batteria di Berry, marziale e ossessiva, lancia al galoppo "I Don't Sleep, I Dream", con un ritornello sfregiato da Stipe in un registro ancor più acuto, quasi effemminato. Non mancano anche un brano para-grunge come "King Of Comedy" e più o meno espliciti rimandi ai Velvet Underground "lisergici" in "Let Me In" (ballata avvolta in nugoli di feeback e volute d'organo) e nelraga psichedelico di "You", con nastri mandati al contrario e tamburi selvaggi a far da contrappunto alla nenia straniante di Stipe. Non si scambi, però, l'energia per l'ottimismo: sul disco aleggia ancora un senso di morte (la dedica è per River Phoenix, giovane star di Hollywood ucciso da un'overdose nella notte di Halloween del 1993), seppur trasfigurato in urla e furore.
Più che tentare un nuovo cambio di rotta, il successivo New Adventures In Hi-Fi (1996) si propone di riassumere tutte le anime del suono-Rem, finendo così col diventare una sorta di antologia di quattro decenni di musica popolare americana. Nelle quattordici tracce, confluiscono i generi più disparati, dal roots-rock al folk, dal country al blues, dal rock'n'roll all'hard-rock. Ma ciò che poteva apparire velleitario (tenere insieme una babele di sonorità eterogenee) si rivela invece un'intuizione felice. Due eventi, però, ne hanno turbato la vigilia: l'allontanamento di Jefferson Holt, storico manager della band fin dagli esordi, e la tragedia sfiorata a Losanna, durante il "Monster Tour", quando il batterista Bill Berry rischia quasi di morire per un aneurisma cerebrale. E l'umore pessimista di Stipe lascia la sua ombra anche su questo album, pervaso da una vena di amara disillusione sugli inganni del Sogno Americano. Manifesto di questo disincanto è l'iniziale "How The West Was Won And Where It Got Us", con la bella intro di tastiere (di Mills) e cadenze quasi hip-hop. E' sempre la melodia il marchio di fabbrica del gruppo, e l'album ne propone almeno tre da ricordare: quella intonata da Stipe in duetto con Patti Smith nella ballatona di "E-Bow The Letter", quella arrangiata per piano e violino (a cura dell'ospite Andy Carlson) nella struggente "Electrolite", e quella che inonda di dolcezza "Be Mine". Il retaggio pseudo-grunge di Monster resta evidente in diversi episodi ("Bittersweet Me", "Wake Up Bomb", "So Fast So Numb"); "Undertow" rinnova la propensione a un rock più "rumoroso"; "The Wake-Up Bomb" è un nuovo omaggio al glam di T. Rex e Mott The Hoople; ma forte è anche il richiamo delle sonorità acustiche di stampo folk-rock, a cominciare dal singolo "Leave" e dall'intensa ballata di "New Test Leper". Nel complesso, pur con qualche pausa e indecisione di troppo, New Adventures In Hi-Fi può essere tranquillamente considerato il disco più sottovalutato degli Rem, giacché critici più o meno snob e pubblico non gli tributeranno l'accoglienza che avrebbe meritato.
Ricomincio da tre.
Nel frattempo, la band di Athens ha stipulato un nuovo supercontratto con la Warner: 80 milioni di dollari incassati per produrre una decina d'album con cadenza biennale, neanche si trattasse di una fabbrica di piastrelle. Ma è proprio a questo punto che la favola dei ragazzi georgiani s'incrina forse definitivamente. Stanco del mestiere di rockstar e spaventato dall'incidente di Losanna, Berry si ritira. "Quando ci ha lasciato - racconta Stipe, cantante e leader della band - ci sentimmo finiti. Ma solo per tre minuti. Poi la voglia di continuare ha preso il sopravvento". Stipe, Buck e Mills, dunque, decidono di andare avanti ugualmente. "Un cane con tre gambe è pur sempre un cane", aggiungerà ancora Stipe. Peccato, però, che il "cane a tre gambe" non saprà più mordere, inanellando tre album sconfortanti come Up, Reveal e Around The Sun, inframezzati nel 1999 dalla colonna sonora di Man On The Moon, il film di Milos Forman sulla vita di Andy Kaufman. Soffocata l'anima del suono-Rem con strati d'elettronica e artifici assoriti in studio, Up (1998) si limita a proporre l'onesta ballata di "Daysleeper", l'appassionato revival country-folk di "Diminished" e lo sghiribizzo para-hardrock di "Lotus", più una manciata di brani confusi e imbarazzanti, nei quali non si intravede più neanche un briciolo del grande talento che la band di Athens aveva profuso nei suoi dischi precedenti (dal quasi synth-pop alla Omd dell'iniziale "Airportman" all'ennesimo omaggio ai Beach Boys di "At My Most Beautiful" e "Parakeet", fino a quella sorta di parodia della "Suzanne" di Leonard Cohen che è "Hope").
Non riesce a far meglio il successivo Reveal (2001), un album visionario e melodico, che vuol essere l'omaggio della band statunitense al sound dei Sixties, ma anche ai grandi spazi dell'America. "Tutte le dodici canzoni sono ambientate in grandi spazi aperti e selvaggi - raccontano - e contengono dentro di sé l'impressione dell'aria, del respiro, del volo ad alta quota". Il gruppo (con Joey Waronker alla batteria) ritrova solo a tratti il piglio fresco degli esordi ("The Lifting") e le ballate, vera specialità di Stipe e soci, hanno preso il sopravvento: soffici chitarre che si rincorrono, delicate trame elettroniche intessute dalle tastiere, fiati e archi che sussurrano di romanticismo e sentimenti. Il singolo "Imitation of Life", però, è un clamoroso fiasco. Si salvano, semmai, tre brani "classici" come "I'll Take The Rain", "I've Been High" e soprattutto l'ariosa "All The Way To Reno (You're Gonna Be A Star)", che però non aggiungono granché di significativo al solito armamentario melodico della band. Seppur leggermente migliore di Up, l'album sembra recare ancora pesanti tracce di quel grave inaridimento che pesa sul gruppo dopo l'addio di Berry.
Around The Sun (2004) segna un'altra tappa nella discesa inesorabile del gruppo. Il singolo "Leaving New York" è la classica ballata alla Rem, con i consueti arpeggi fatati della chitarra, la cantilena modulata di Stipe e il ritornello da acchiappo, ma non aggiunge alcunché ai suoi predecessori (da "Everybody Hurts" a "Daysleeper"). È proprio sul versante "malinconico", comunque, che Stipe e compagni riescono ancora a tenersi a galla, riuscendo, seppur a sprazzi, a dare un'idea di quel groppo alla gola che opprime l'America post-11 settembre, con pezzi come "Worst Joke Ever" (un lento scuro e dolente, impreziosito da morbidi ricami acustici e declinato in un registro quantomai struggente da Stipe) oppure "Final Straw", in cui la litania del nostro si lascia accompagnare solo da una sinistra chitarrina western. Altre volte, si annega nella banalità: "Make It All Ok", con la sua scontata intro di chitarra e voce e l'altrettanto prevedibile crescendo di armonie vocali e batteria, oppure "The Boy In The Well" col suo classico mid-tempo punteggiato dai fraseggi di tastiere, chitarre, piano e fisarmonica, o ancora "I Wanted To Be Wrong", col suo bell'arpeggio iniziale, incalzato dal dialogo tra chitarra elettrica, basso e batteria. Se una novità si può rintracciare in "Around The Sun", questa può essere la scelta di ridimensionare il ruolo delle chitarre elettriche, per puntare i riflettori soprattutto sul canto di Stipe e sugli inserimenti, via via, di archi, piano, organo hammond e tastiere. L'esito, però, delude su tutto il fronte: dal pop sintetico alla U2 tarda maniera di "Electron Blue" al pasticcio confuso di tastiere, piano e jingle-jangle assortiti di "Aftermath", fino alle atmosfere plumbee di "High Speed Train". "Wander Lust" tenta perfino di riesumare la vecchia "What's The Frequency, Kenneth?" innestandovi sopra un ritmo incalzante, simile a quello di "London Calling" dei Clash. Ma le scivolate più clamorose del disco sono l'inqualificabile rap in coda a "The Outsiders", concesso da Q-Tip, e l'ossessivo "yeah-yeah" di Stipe, sorta di versione rincitrullita del McCartney di "She Loves You", che inquina "The Ascent Of Man". Il disco farà parlare di sé soprattutto per le sue tematiche anti-Bush.
Accelerate (2008) è un ritorno a tutto gas. L'album dura appena 35 minuti ed è composto dalle canzoni più veloci e d'impatto che Stipe e soci abbiano scritto almeno da un decennio a questa parte, tutte suonate ed interpretate con un senso di gioiosa nonchalance.
Le note di apertura di "Living Well Is The Best Revenge" richiamano alla mente quella favolosa cavalcata che fu "These Days" (da Lifes Rich Pageant, 1986). Ma non c'è solo la velocità: l'immancabile ballata ("Until The Day Is Done") è particolarmente ispirata, il singolo scelto come apripista per l'album ("Supernatural Superserious") è tra i migliori e più immediati della band da molti anni a questa parte, grazie anche agli splendidi cori di Mike Mills. E c'è, poi, il colpo di classe di "Hollow Man", sfavillante mid-tempo, dove, ad accompagnare la inconfondibile voce di Stipe, gli strumenti acustici si sposano alla perfezione con il feedback di Peter Buck.
Non tutto, però, è compiuto in questa gioiosa macchina da guerra: "Houston", che sarebbe potuta essere un piccolo gioiello di gentile folk acustico, è un'occasione mancata e, sporcata da onnipresenti distorsioni elettriche, viene normalizzata e sacrificata sull'altare della compattezza. "Mr. Richard" non riesce mai a decollare. Anche la finale "I'm Gonna DJ", per quanto possa funzionare in Fm, rimane una canzone degli Rem geneticamente modificata che desta qualche perplessità.
Un po' della poesia e del mistero dei tempi passati è, inevitabilmente, perduto, ma questa, purtroppo, non è una novità. Così, se non un definitivo ritorno alla forma dei bei tempi, il nuovo lavoro di Stipe e compagni dimostra almeno che nel cuore affaticato ed un po' consunto della band, attiva ormai da un quarto di secolo, scorre ancora sangue fresco e che non è, per ora, ancora giunto il momento di mettere la parola fine ad una esperienza che, a tratti indimenticabile, ha segnato la storia del rock degli ultimi tre decenni.
Collapse Into Now giunge a tre anni dalla precedente fatica e si presenta subito in modo diretto con la doppietta iniziale "Discoverer"-"All The Best" che è una botta energica e asciutta, con pochi fronzoli ma anche con poca inventiva: presenta un sound che potrebbe essere diretto discendente diMonster o di New Adventures In Hi Fi e parrebbe inaugurare il secondo album rock'n'roll di fila, sebbene meno scanzonato. I ritmi, però, rallentano bruscamente e Collapse Into Now si rivela decisamente più meditativo del suo predecessore, col singolo "ÜBerlin" che spicca per la sua bontà melodica intrisa di spleen e con le sue delicatezze acustiche rinvigorite dall'elettronica soffusa tipica delle loro ultime produzioni.
Ci pensa lo scoppiettante e divertito uno-due composto da "Alligator Aviator Autopilot Antimatter" (sorprendentemente buono e fresco l'impasto vocale Stipe-Peaches, anche se, senza dubbio, i fan della prima ora storceranno il naso) e dalla brevissima "To Someone Is You" (che, di nuovo, rimanda ai pezzi più veloci di inizio carriera) a far ripartire i ritmi, ma il risultato è persino più giovanilistico di quanto proposto inAccelerate. Quasi che i componenti della band, superati oramai i cinquanta, pensassero alle chitarre elettriche come una sorta di viagra musicale cui non si possa prescindere per poter essere considerati ancora delle rockstar.
Il finale è dedicato, in maniera un po' scontata (e miope) a due ballate che chiudono l'album smorzando nuovamente i toni e contribuendo a sbilanciarne ulteriormente la scaletta. Prima la languida (e soporifera) "Me, Marlon Brando, Marlon Brando And I" che, seppur da buone premesse, non decolla mai e, per finire, quello che su carta doveva essere uno dei pezzi forti dell'intero lavoro: la seconda collaborazione con la musa Patti Smith. Purtroppo, in questo caso, la sacerdotessa del rock aggiunge pocopathos e nessun brivido a "Blue", ballad ricalcata in maniera quasi imbarazzante sulla prima collaborazione per "E-Bow The Letter": un effluvio di e-bow, il distorto recitato di Stipe e la sensazione di dejà-vu si fa piuttosto marcata.
La sensazione è che Collapse Into Now potrebbe essere una sorta digreatest hits delle atmosfere tipiche degli Rem, dagli esordi sino ad "Around The Sun", passando per Out Of Time. Ma, benché le atmosfere siano quelle di sempre, qui mancano melodie davvero memorabili per supportare un'operazione così rischiosa. E se con gli ascolti il risultato complessivo sembra crescere lo si deve principalmente ad un effetto di assuefazione dovuto al gioco dei rimandi che rende i nuovi brani, seppur "insipidi", immediatamente familiari ("Mine Smells Like Honey", per esempio, potrebbe sembrare il più riuscito del lotto a chi amasse album quali "Life's Rich Pageant") .
Collapse Into Now finisce, così, per essere un album piuttosto trascurabile nella lunga carriera discografica degli Rem, costellata di lavori di assoluto valore e di straordinari successi commerciali, e fa pensare, senza nulla togliere al grande mestiere e alla classe dimostrata anche tra queste note, che oramai per i tre di Athens la musica rock sia diventata, appunto, una mera attività lavorativa, da svolgere con diligenza, perizia e applicazione, ma senza più alcuna passione. E tale constatazione non può che deludere il fan più intransigente, ma non soddisferà neanche il seguace più indulgente e avvezzo al perdono.
Pare che il punto di non ritorno della parabola degli Rem sia arrivato durante quello che verrà ricordato come l'ultimo tour della loro storia, nell'estate del 2008. I tre membri reduci di una delle band più significative della storia del rock, quella che più di ogni altra ha tenuto a galla un certo modo di fare e di pensare il rock quando una trentina di anni fa pareva che tutto fosse destinato a finire nel tritacarne del sintetico e dei lustrini, erano caduti e s'erano rialzati, e guardandosi in faccia si dissero che probabilmente non c'era più molto altro da dire.
Così, si sono ritrovati a guardarsi in faccia, Stipe, Mills e Buck, e hanno pensato tutti più o meno la stessa cosa. Facciamo quest'ultimo disco con la Warner, e poi giù il sipario. E così, una manciata di mesi dopo Collapse Into Now, quel piccolo compendio delle tante maschere che hanno saputo indossare nella loro lunga carriera, capitolo finale degno e non privo di qualche indiscutibile pezzo di bravura, ecco l'annuncio: gli Rem non sono più una band.
Poi, per congedarsi hanno messo insieme il loro greatest hits definitivo, con un titolo fantastico, Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage, e tre inediti ad aggiungersi a trentasette canzoni pescate tra le oltre duecento pubblicate dal 1982 a oggi.
Naturalmente non sono i tre inediti a dare un senso a questa raccolta, anche se quello scelto come singolo di lancio, "We All Go Back To Where We Belong", con i suoi fiati che sembrano messi lì da un capriccio di Burt Bacharach e la sua aria malinconica, tutto sommato fa la sua bella figura come canto d'addio, elegante, passatista e discreto. "A Month Of Saturdays", che lo precede in scaletta, a sentire Mills è nata come una sorta di omaggio ai Pylon, mentre "Hallelujah", che chiude i giochi, è una bella ballata molto remiana con quel basso che gira su se stesso, qualche arco e un ritornello che si fonda tutto sui saliscendi senza parole della voce di Stipe.
Contributi di Nello Giovane - IAMR ("Life's Rich Pageant"), Francesco Amoroso ("Accelerate", "Collapse Into Now"), Stefano Fiori ("Collapse Into Now"), Giovanni Dozzini ("Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage")