Scritto da Pietro Cheli in Promette bene | Permalink
Palo Alto è un bel nome per una città, il suono ispanico lo fa sentire immediatamente caldo, e indica un posto nel quale si vive bene. È in California, per la precisione nella Silicon Valley (anni e anni di traduzione pericolosa alle spalle per via di quel silicio che rischia sempre di diventare silicone), è quindi uno dei centri che da metà del secolo scorso disegnano il futuro del mondo. Qui la gente ha capelli biondi, denti bianchi, fisici perfetti, ma anche l’energia intellettuale nerd. Palo Alto è sede di molte facoltà dell’Università di Stanford (uno dei superatenei mondiali) e, soprattutto, di compagnie (quando si parla di Stati Uniti le aziende si chiamano solo così) tipo Xerox, Hewlett-Packard e, più di recente, Facebook, LinkedIn, Skype e tutto quanto fa web 2.0. Insomma, normale che persone da tutti gli Stati americani ci vadano (o ci vogliano andare) a lavorare. Viene da pensare che con un po’ di cervello e voglia di fare, crisi o non crisi, da queste parti ci stai alla grande. Un benessere fatto non solo di soldi, ma anche soprattutto di quelli.
Però il benessere ha sempre un lato b. Come certi 45 giri di una volta – perdonate, il mio futuro è iniziato nel cuore del secolo scorso – davanti c’è la hit di successo che fa sorridere (capelli biondi, denti bianchi…), dietro un pezzo di struggente malinconia. Come i protagonisti dei racconti che James Franco ha riunito nel volume In stato di ebbrezza, titolo decisamente più azzeccato dell’originale Palo Alto. Nella scelta della casa editrice italiana minimum fax c’è uno sguardo più approfondito, esattamente come quello del 34enne – ha compiuto gli anni giovedì 19 aprile – attore e regista (Urlo, Milk, Spider-Man). Lui a Palo Alto ci è nato e ci è cresciuto e ha sentito l’esigenza di descrivere tutta quell’ebbrezza che ha provato e visto provare. Birra, whisky, con bevute proibite: “Continuavamo a fregare i superalcolici dal mobile bar di casa, riempiendo d’acqua le bottiglie. Non potevamo mai prenderne troppo da una sola perché ci avrebbero sgamato; ne prendevamo un po’ da ognuna e mescolavamo il tutto in un punch come i barboni”. Parlano in prima persona sia ragazzi sia ragazze, colore della pelle variabile ma non le età, tutte rigorosamente all’interno dell’adolescenza.
Sono i figli di quel benessere, non hanno problemi economici, usano le auto di mamma e papà, quasi sempre viziati, stanno in gruppo ma sono molto soli. James Franco, che alla recitazione ha alternato gli studi in letteratura a Yale (altra super università) è bravissimo a scrivere. È scontato, lo so, ma viene subito da pensare a un altro bravo attore scrittore come Ethan Hawke e al suo romanzo L’amore giovane. Franco presenta i suoi personaggi in presa diretta, senza giudicarli, facendoci entrare nelle loro vite prive di punti di riferimento. Non hanno la spensieratezza di chi surfava sulle onde e tra le note anni Sessanta. I ragazzi di In stato di ebbrezza sono fratelli minori della X Generation battezzata da Douglas Coupland, che proprio a Palo Alto ha ambientato a fine anni Novanta il romanzo Microservi, storia di giovani sognatori in cerca di identità e ricchezza.
I protagonisti di James Franco non sognano. Non sanno che cosa sia seguire un’ambizione, persi in notti balorde da cui si ricompongono per presentarsi il più in ordine possibile il giorno dopo a scuola. Ma non per ipocrisia. Bevono, sniffano, si bruciano le braccia con le sigarette, spesso sono razzisti oppure omofobi e fanno sesso, tutto senza che mai l’ombra dell’amore o il desiderio di un possibile piacere li sfiori. “È assurdo come accadono cose nuove che ti fanno dubitare che ci sia qualcosa di bello nella vita”, medita il protagonista di Halloween, il racconto di apertura. E come lui, tutti gli altri avanzano a tentoni nel mondo senza rendersi conto “che sono tutti lì che cercano di essere normali e tuoi amici, ma sotto sotto ognuno di loro vive un’altra vita di cui non sai un bel niente”. C’è chi dice: “Non è divertente essere me… vorrei essere messicano o ebreo, cioè giudeo, cioè israelita, o giudeo messicano gay, perché a volte può essere noiosissimo essere te stesso”. Muoiono, ogni tanto ammazzano, come se fosse una cosa normale, come un videogame. Il racconto più bello è anche il più insostenibile: parla di una ragazza che viene abusata da tutti i suoi compagni, usata come merce di scambio dal tipo di cui si è innamorata. Ogni tanto qualcuno ha una buona intuizione. Ce n’è uno, vittima di un bullo, tale Brent, che si chiede: perché non farlo fuori? Mentre ha appuntamento con il tipo che gli vende l’arma, con cui liquidare la pratica, gli “succede una cosa strana. Mentre ero fermo ad aspettare la mia pistola ho cominciato a vedere Brent in modo diverso. Per un secondo mi è sembrato fosse solo uno come gli altri. Forse aveva avuto un mucchio di delusioni dalla vita. Se gli avessi sparato, non sarebbe stata una cosa poi così importante. Ci sarebbero stati altri come lui”.
E qui mi fermo, perché il rischio di scrivere del solito incubo dietro il solito sogno americano incombe. E in omaggio al bravo James Franco, che in queste pagine non moralisteggia mai, non voglio correre il rischio di farlo io.
Qui in due video lo sentite leggere alcune pagine del libro: