Il film cult di Mathieu Kassovitz con Vincent Cassel compie 20 anni, ma sembra girato ieri
La genesi: La rabbia di un trentenne
Un filmato d'epoca, preso da un telegiornale, probabilmente. Nell'inquadratura, nell'immagine sgranata, c'è un uomo, da solo, su una strada. Sembra notte, e in fondo alla strada c'è una fila compatta di poliziotti in assetto anti sommossa. «Non siete altro che degli assassini», gli grida l'uomo, «Voi sparate, è facile eh?», continua, alzando il braccio. «Ma noi non abbiamo armi, non abbiamo altro che pietre». Poi il passaggio al nero, e un titolo, forte come un pugno nello stomaco: La Haine. L'odio, in italiano.
È il maggio del 1995 e questo è l'inizio del secondo film di un regista ancora poco conosciuto che si chiama Mathieu Kassovitz, parigino di origini ebraiche che all'epoca non ha ancora compiuto trent'anni e che, con quel film, ha un rapporto sanguigno, viscerale, urgente.
Facciamo un passo indietro, lasciamo per un attimo Kassovitz e il suo film e torniamo a un'altra scena. A differenza della prima, questa non l'ha vista nessuno, perché non c'erano telecamere a filmarla. Si svolge in un interno, in una delle sale del commissariato di polizia del quartiere di Grandes Carrières, a Parigi, nel XVIII arrondissement, poco lontano da Montmartre.
I personaggi sono due. Il primo è un ispettore della polizia di Parigi, si chiama Pascal Compain e ha alle spalle dodici anni di servizio. L'altro è un ragazzino che non ha ancora diciotto anni, è originario dello Zaire e si chiama Makomé M'Bowolé. L'ispettore si occupa delle indagini sullo spaccio di sigarette, il ragazzo, che la notte prima è stato fermato con 120 pacchetti addosso, c'entra qualcosa, ma non vuole parlare. Compain invece vuole sapere, e prima lo ammanetta al termosifone poi lo minaccia con la sua pistola d'ordinanza, che avvicina alla testa del ragazzino, sempre di più. Sono all'incirca le 6 del mattino quando parte il colpo di pistola che uccide Makomé sul colpo sfondandogli il cranio.
Il giorno dopo, davanti al commissariato ci sono circa 250 persone, ma diventano presto molte di più. Tra loro c'è il fratello di Makomé, che gli amici a stento riescono a tenere dalla rabbia che lo scuote da qualche ora. Quel giorno a Parigi, non troppo lontano da lì, passeggiano anche Mathieu Kassovitz e Vincent Cassel. «Per strada c'erano un sacco di sbirri, un sacco di gente dappertutto», racconta il secondo, «credo che fu in quel momento che me ne parlò». Anche Kassovitz si ricorda di quel giorno. «A quella manifestazione partecipavano circa 300 persone», racconta. «In realtà non doveva nemmeno essere una manifestazione, doveva essere un sit in, pacifico».
Anche i servizi dei telegiornali dell'epoca confermano il ricordo di Kassovitz. «La manifestazione voleva essere simbolica» dice la voce fuori campo del giornalista di Antenne 2, «ma poi, di colpo, è scoppiata la violenza. Lanci di pietre, di bulloni, di cocktail Molotov. E la polizia che ha risposto con le cariche. Per diverse ore il XVIII arrondissement è stato in preda a violenti scontri». Sotto la voce scorrono immagini che in questi giorni di maggio, a Milano, ci sono familiari, e rispondono perfettamente alla descrizione.
Dieci anni dopo, nel 2005, il produttore Christophe Rossignon ricorda come l'avventura de L'Odio è cominciata. «Mathieu è venuto a trovarmi il giorno dopo. È arrivato e mi ha detto “Voglio fare un film su questa roba qua. Voglio reagire”». Quello che Kassovitz racconta a Rossignon non è ancora precisamente La Haine, ma già c'è tutto. Come se non fosse la prima volta che ci pensava. Anche il presidente di Lazennec, la casa produttrice del film, conferma la sensazione che Kassovitz quel film ce l'avesse in testa da un po', che gli fosse maturato dentro e che fosse esploso quel giorno: «Voleva fare un film sociale, politico, come ne fanno gli americani».
Il culmine: Spara, Vinz, spara
Dopo quell'uomo che urla, dopo quel titolo — La Haine — in bianco su nero, secco, definitivo da far venire i brividi, una voce fuori campo inizia a parlare.
C’est l’histoire d’un homme qui tombe d’un immeuble de 50 étages. Le mec, au fur et à mesure de sa chute, il se répète sans cesse pour se rassurer : « Jusqu’ici tout va bien... Jusqu’ici tout va bien... Jusqu’ici tout va bien. » Mais l’important, c’est pas la chute. C’est l’atterrissage.
È la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Il tizio, man mano che cade, si ripete senza sosta per rassicurarsi: «Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui... tutto bene». Ma l'importante non è la caduta. È l'atterraggio.
La voce è quella di Hubert — interpretato da Hubert Koundé — uno dei tre personaggi protagonisti del film insieme a Vinz (Vincent Cassel) e Said (Saïd Taghmaoui). Hubert è nero — le Noir —, è appassionato di pugilato, dei tre è quello più “maturo”, quello che sa ragionare più a freddo degli altri. È lui che, in una delle scene chiave, quella nel bagno, dice la frase chiave dell'intero film: La haine attire la haine. L'odio attira l'odio.
Gli altri, appunto. Al fianco di Hubert c'è Said, di origine araba — le Beur — testa calda ma ragazzino, il più innocente dei tre — ma poi ci arriviamo — che prima segue un po' passivamente Vinz e la sua goliardica violenza urlata, e che poi si rivede, convinto da Hubert. E poi c'è Vinz, bianco — le Blanc — di famiglia ebraica, ossessionato dalla violenza, dalla pistola, dagli sbirri — les flics.
Vinz davanti allo specchio recita la parte di De Niro in Taxi Driver, tiene la pistola infilata nei pantaloni, Vinz è lo strafottente che sfida la polizia, che vuole sparare a uno sbirro, ma è anche quello, davanti alla violenza vera, arriva alla catarsi. È un episodio centrale, vale la pena di uno zoom.
I tre sono a Parigi, è notte. Dopo una colluttazione con un gruppo di nazi ne rapiscono uno (interpretato dal regista). Vinz è quello con la pistola, e gliela punta in faccia, gliela ficca quasi in fronte, fa il gradasso, ancora, ripete agli altri «Essayez pas d'm'arreter», Non cercate di fermarmi, ma tituba. A quel punto interviene e gli dice «Tire, tire, tire! Putain, Tire! Il ya des flics bons, mais un bon skin c'est un skin mort! Tire Putain!» (Spara, spara, spara! Porca puttana, spara! Di poliziotti buoni ce ne sono, ma un nazi buono è un nazi morto! Spara porca puttana!).
La fine: L'importante non è la caduta. È l'atterraggio
Vinz non ce l'ha fatta, la violenza di cui si è riempito la bocca per tutto il film gli esce in forma di conati di vomito. È il culmine del film, Hubert l'ha convinto— l'odio attira odio, è una spirale, gli diceva al cesso — e tornando in banlieue, Vinz depone le armi, lasciando la pistola a Hubert prima di salutarsi.
Sono le sei del mattino — le stesse sei del mattino in cui Makomé morì con un colpo in testa sparato dal commissario Compain nel commissariato del XVIII arrondissement — ed è la fine del film, e i tre si separano. Hubert se ne va per la sua strada, Vinz e Said per la loro. Ma arriva una macchina della polizia, scendono tre poliziotti, tra cui una vecchia conoscenza di Vinz. La scena, a parte l'ambientazione all'aperto, è identica a come possiamo immaginarci quella della morte di Makomé. Il poliziotto minaccia Vinz, gli punta la pistola in faccia. E spara.
Said, dall'altra parte della macchina degli sbirri, è attonito. Hubert è tornato sui suoi passi, si avvicina alla macchina. Per terra c'è il corpo di Vinz e lui tira fuori la pistola e la punta in faccia al poliziotto che ha sparato all'amico, che fa la stessa cosa. Nel linguaggio tecnico si chiama mexican standoff, stallo alla messicana, e non finisce mai bene. Il tempo praticamente si ferma, un ticchettio lo scandisce mentre la macchina da presa sposta l'inquadratura, la approfondisce. Supera il mexican standoff dei due e inquadra il viso di Said.
Intanto, ritorna la voce fuori campo. Quella di Hubert, che ripete la frase dell'inizio, cambiando un dettaglio, fondamentale: l'uomo dell'inizio diventa la società. Nel film si avverte un passaggio simile, perché, in fondo, i tre personaggi sono le facce di un personaggio solo.
C'est l'histoire d'une sociète qui tombe et qui, au fur et à mesure de sa chute, se répète sans cesse pour se rassurer. «Jusq'ici tout va bien... Jusq'ici tout va bien... Jusq'ici tout va bien... L'important, c'est pas la chute. C'est l'atterrissage.
È la storia di una società che cade e che, man mano che cade, si ripete senza sosta per rassicurarsi. «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui... tutto bene.» Ma l'importante non è la caduta. È l'atterraggio.
L'orologio di ferma. La frase finisce. E un colpo di pistola esplode. Non si sa — il film finisce lì — chi dei due, tra Hubert e il poliziotto, risolve il mexican standoff sparando per primo. Forse si sparano a vicenda. Secondo chi scrive è Hubert a esplodere il colpo, d'altronde è la sua voce che finisce la frase, dopo lo sparo. Ma in realtà non importa. L'odio attira l'odio, è una spirale, e non si è fermata. E sono passati vent'anni, e quella spirale non si è ancora fermata, come la nostra caduta.
Jusqu'ici tout va bien. Jusqu'ici tout va bien. Jusqu'ici... tout va bien.
Bonus Track: La storia di Grunwalski
Esattamente in mezzo al film c'è una scena che lascia lo spettatore, e anche i tre protagonisti, interdetti. I tre sono nel cesso di un locale e discutono animatamente. È il momento in cui Hubert dice la frase-baricentro del film — l'odio attira odio — il messaggio è sul tavolo. Ma si apre una porta.
È la porta di una delle toilette del bagno degli uomini, e mentre la porta si apre, ancora non si vede nessuno. L'inquadratura allora si abbassa e un personaggio assurdo comincia a parlare.
Il suo discorso è un capolavoro, e inizia così: «È veramente bello cagare un po'». Il vecchietto è un ebreo scampato all'Olocausto che ha una storia da raccontare a tutti e tre. La storia di Grunwalski, che vale la pena riportare integralmente (la traduzione è mia, ndr):
Non c'è niente come una bella cagata! Credete in Dio? Ma è la domanda sbagliata. Dio crede in noi? Una volta avevo un amico che si chiamava Grunwalski. Eravamo stati deportati insieme in Siberia. Quando vai in Siberia nei campi di lavoro viaggi in un carro bestiame che attraversa al steppa per due giorni senza incrociare nessuno. Eravamo seduti accanto, ma il problema è che non potevi sgranchirti, non potevi neppure cagare nel vagone. Il solo momento in cui il treno si fermava era quando doveva ricaricare l'acqua nella locomotiva. Ma Grunwalski era molto timido, anche quando si lavavamo insieme gli dava fastidio. E io lo prendevo in giro per questo. Quindi, il treno si ferma e tutti scendono per cagare sotto i vagoni. Ma io avevo tanto preso in giro che Grunwalski ha preferito andare un po' più in là, quindi quando il treno è partito tutti sono saltati sopra, perché il treno non aspetta. Il problema è che Grunwalski si era messo a cagare dietro a un cespuglio e non aveva ancora finito di cagare. E così lo vedo che esce da lì e che si tiene i pantaloni con la mano per non farli cadere. Cercava di raggiungere il treno. Io gli tendevo la mano, ma ogni volta che lui mi tendeva la sua, i pantaloni gli cadevano alle caviglie. Lui se li tirava su ogni volta e riprendeva la corsa. Ma tutte le volte che mi tendeva la mano, i pantaloni gli cadevano.
«E allora», gli fa Said, «come è finita?»
Niente, Grunwalski è morto di freddo. Arrivederci.
In tanti hanno cercato la morale in questo episodio, talmente centrale — pensavano tutti — da dover per forza simboleggiare qualcosa per Kassovitz, che, oltretutto, è di origine ebraica. C'è chi dice che l'inserto serve a stemperare la tensione con una storiella di humeur noir. C'è chi dice che la figura del vecchietto, l'unico in tutto il film che i tre rispettano, serve a sancire la mancanza di esempi e di figure di riferimento. Io azzardo un'altra ipotesi, non meno arbitraria, né più legittima delle altre.
Grunwalski muore perché si vergogna di cagare insieme gli altri. Paga con la vita il suo orgoglio, in questo caso il suo pudore, e il fatto di non piegarsi alla realtà. Grunwalski, in qualche modo, è Vinz, il cui pudore è l'orgoglio, è il non voler porgere l'altra guancia, il voler reagire alla violenza con la violenza. Come Grunwalski, anche Vinz Muore. L'odio attira l'odio, di odio si nutre. Interrompere la catena dell'odio è impossibile se non ci si adatta.
Il regista, come il vecchietto, non offre nessuna soluzione che non sia quella dei fatti. Chi si adatta vive, chi non lo fa muore. La grandezza del film è proprio questa mancanza di morale, di soluzione, di verità. E lo stesso Kassovitz lo dice in più di una intervista «Se c'è della gente che pensa che La Haine sia l'unico punto di vista è un problema loro. Il punto di vista de La Haine, il mio punto di vista, ma non è il solo e non è per forza quello buono».
Di Andrea Coccia
http://www.linkiesta.it/la-haine-l-odio-mathieu-kassovitz-film-significato-violenza