Il ricordo di Rondi nel centenario della nascita dell'attore-regista. L’incontro sul set del Quirinale nel ’47: "Il successo? Resta una scommessa"
Nato il 6 maggio 1915 e morto a soli 70 anni, il 10 ottobre del 1984 Orson Welles, a quell'epoca, era già un classico vivente. Che però non esisteva più. Tutti ne avevano paura, e per primi i produttori, che ad ogni sua proposta, dovevano dirgli di sì o di no. E che, da anni ormai, gli dicevano di no. Non perché avesse mai fallito, ma perché imbarcarsi con lui in un'impresa comportava sempre dei rischi: uno soprattutto, quello che non c'era mai in alcun modo la certezza di sapere dove, con lui, si sarebbe arrivati. Proprio perché era un genio.
La sua carriera era stata un seguito di avventure irripetibili, una sempre diversa, più difficile e spericolata dell'altra. Ricordo, molti anni fa, un tycoon di Hollywood al quale rimproveravo il silenzio cui il cinema americano aveva condannato Welles. «Chi ci garantisce qualcosa, con lui», mi ero sentito rispondere. «Ieri ha fatto il Macbeth, stupendo, adesso vorrebbe fare un Otello. Il soggetto lo conosciamo, ma con lui come si può stare tranquilli? Se gli dico: ti firmo il contratto solo se il film me lo fai come Macbeth lui mi darebbe retta, ma io, dopo, con che carte gioco?». La sua molteplicità di idee, la genialità delle sue trovate anziché a lode gli erano imputate a difetto e per questo tutta la sua carriera era stata sempre disseminata di ostilità anche perché lui vi aggiungeva, di suo, il carattere e quel gusto provocatorio di essere e di voler apparire un personaggio scomodo che, per indole e per istinto, si dava perennemente in spettacolo, fino a fabbricarsi attorno una vera leggenda, quella del selvatico, dell'aggressivo e soprattutto dell'imprevedibile. Con tutte le conseguenze del caso.
Avevamo salutato Godard, rinnovatore del linguaggio del cinema. Ma prima di lui, e in quegli anni quaranta in cui tanto cinema, anche americano, stagnava, ci fu la grande vampata di Quarto potere, una vera e propria rivoluzione del linguaggio del cinema in cui i mosaici della narrazione magistralmente coincidevano con i mosaici delle psicologie. All'interno di un'idea che, pur variando sempre modi, linguaggi, estetiche ed approcci stilistici, Welles avrebbe poi continuato a riproporre in tutta la sua vita creativa: quella del potere (dell'uomo di potere), con le sue tare all'interno, premonizione ogni volta di sfacelo e di morte. Da Quarto potere (1941) a Lo straniero (1946), al Macbeth (1948), a Falstaff (1966). Con in mezzo la tappa allucinata e sconvolgente del Processo kafkiano (1952).
Sullo schermo mostrava un fisico da gigante ingrassato messo con impeto al servizio di personaggi quasi sempre abnormi: quando lo incontrai in un ristorante romano dove pranzavo con Fellini, se non avessi visto nel frattempo tutti i film in cui aveva recitato, avrei stentato a riconoscerlo nel giovane magrissimo, grintoso, tutto capelli neri, in cui mi ero imbattuto per la prima vota nel '47, su un set che era addirittura il Quirinale, dove il re non c'era più e il presidente, Enrico De Nicola, non c'era ancora perché risiedeva a Palazzo Giustiniani. Mi aveva invitato Luigi Barzini jr., incaricato da una compagnia di Hollywood di tenere i rapporti con la stampa per uno dei primi film americani che si giravano a Roma, Cagliostro, regista Gregory Ratoff, protagonista proprio Welles.
L'appuntamento era a un ingresso secondario in via della Dataria. Quando arrivai, Barzini non c'era. Non feci però fatica a giungere a destinazione: a indicarmi la strada, dal cortile ai saloni, provvedevano lunghi cavi di gomma collegati ai riflettori e alla macchina da presa, e delle stuoie di corda che, per proteggere i pavimenti, erano state collocate un po' dappertutto lungo i percorsi della troupe. Una troupe non diversa da tante, ma, dato il contrasto con il luogo, un po' anche con l'aria di muoversi in terra di conquista: senza rispetto per nessuno.
In quella che era stata la sala del trono era stato portato un gran letto a baldacchino, copia conforme delle stanze da letto dei re a Versailles. E difatti in quel letto stava fingendo di morire di vaiolo un attore americano nella parte di Luigi XV, assistito da una Du Barry che si disperava, mentre un prelato arrivava con l'estrema unzione. Rumori, grida, frastuoni. Chi gridava più di tutti era Ratoff, il regista, un ex russo con una corporatura da orso della steppa. Molto più tardi Ingrid Bergman, che gli doveva l'esordio a Hollywood con Intermezzo, me ne avrebbe parlato con simpatia: il nostro solo disaccordo. Vicino a una delle finestre che davano sulla piazza c'era Welles. In costume ma senza il parrucchino di Cagliostro, perché era in pausa. Barzini era lì e non mi fu difficile farmi avanti.
Lì faceva l'attore, disse subito Welles, ma si sentiva soprattutto regista. Aveva appena finito un Macbeth. «Molto diverso da tutti i Macbeth visti finora», commentò senza alcun timore di apparire immodesto.
Nel mondo dello spettacolo, certo, il primo successo - continuò - lo aveva avuto con quella terribile beffa radiofonica dell'invasione dei marziani, «ma il successo al cinema non ha regole fisse e ogni volta è una scommessa. Anche perché - affermò - per essere sicuro di conquistare i mercati mondiali bisognerebbe servirsi di una formula valida per tutti, mentre in tasca non ce l'ha nessuno. Forse - aggiunse - ce l'avevano un po' a Hollywood ai tempi d'oro, ma ora tutto stava cambiando...».
Era sposato con Rita Hayworth. Ardito, gliene chiesi un parere. Secco: «Il suo handicap è la bellezza, ma la vedrà ne La signora di Shangai. Le ho fatto tagliare i capelli, l'ho imbruttita, è un'attrice adesso».
E il cinema italiano? Mi guardò quasi storto. «Voi non ne capite niente», dichiarò. «In due anni avete fatto Paisà, Sciuscià, Roma città aperta e ancora non gridate al miracolo. Li avessero fatti da noi ci sarebbe già stata una rivoluzione e io non sarei qua con la parrucca». Una "rivoluzione", intanto, si stava preparando proprio lì al Quirinale, annunciata da un vociare romanesco e americano. Erano le comparse che, agli ordini degli assistenti di Ratoff, si stavano radunando in cortile perché, morto Luigi XV (dopo 22 riprese), si sarebbe girata una "marcia su Versailles": una delle pagine più movimentate del film, mi informò Barzini. Ma non poté continuare. Il chiasso aveva dato fastidio al regista, già di cattivo umore perché un'ora prima era quasi venuto alle mani con Welles con cui non si intendeva. Si sentì perciò Ratoff urlare uno «Stop!» frenetico, infilando subito dopo due o tre saloni di corsa per esigere, fuori, tutto il silenzio per pensare. Tra le dita aveva un grosso sigaro, nonostante i molti no smoking stampati in fretta che costellavano i damaschi del palazzo. Nella furia si scontrò con un signore che cercava Barzini. Fumava anche lui e Ratoff lo investì: «Qua fumo solo io, spenga quella dannata sigaretta!». «Giusto - commentò forte Welles - questa è la democrazia». L'orso della steppa si bloccò e di colpo tornò indietro. «Ora si menano», ghignò un macchinista. Ma la faccia sprezzante di Welles trasudava solo ironia. L'altro alzò torvo le spalle e tornò indietro quasi di corsa. Una corsa troppo concitata e irosa. Ratoff inciampò e, rovinando addosso a una delle porte dorate e laccate, la sfondò con fracasso.
«Nessuna importanza - gridò - ve la rifaccio nuova!».
Orson Welles impassibile: «L'ho già letta sul Punch!».
Certo una battuta. Che di lui diceva quasi tutto. Vi ricorro adesso in occasione del suo Centenario, ricordando i suoi film grandissimi ma anche, appunto, quel tipo di humor dietro alla cui facciata si era nascosto quando giovanissimo si era fatto beffe di tutti terrorizzandoli attraverso la radio con una pseudo invasione della Terra da parte dei marziani.
http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2015/05/04/il-ricordo-di-rondi-nel-centenario-della-nascita-del-grande-attore-regista-orson-welles-genio-beffardo-1.1411014