Insistendo sulla relazione tra Vincent Cassel ed Emmanuelle Bercot, Mon Roi ha una piccola onestà di fondo: quella di non mentire.
Che cosa racconta Mon Roi? Una storia d'amore. Ecco un caso in cui non vi è alcuna chance che l'originalità narrativa possa comparire tra le caratteristiche del nuovo film di Maïwenn Le Besco. Si tratta, come ovvio, di un dato di partenza. Chi mai potrebbe pretendere dopo 120 anni di storia del cinema (e della letteratura, del teatro, dell'opera, della canzone...) che un racconto su una coppia che si ama, si lascia, si riprende e si dilania possa dire qualcosa di nuovo sui rapporti sentimentali tra le persone?
Sarà per questo motivo che, tra le strategie del cinema cosiddetto postmoderno, sono stati esplorati nel tempo nuovi modi di raccontare le storie d'amore. Lo si è fatto stravolgendo i tempi narrativi (Fine di una storia di Neil Jordan o Cinqueperdue di François Ozon), rendendo eroticamente esplicito il legame passionale (da Intimacy a Love), ampliando finalmente a tutti gli orientamenti identitari e sessuali le vicende romantiche e relazionali (tutto il cinema LGBT), e così via.
Finita la sbornia decostruttiva, eccoci tornati al punto di partenza. Come raccontare una storia d'amore? Come spiegare che cosa va storto in una coppia che sembra amarsi pazzamente e che vede erodersi pian piano il capitale sentimentale cui si pensava di poter attingere per sempre? In verità Mon Roi ha dalla sua qualcosa di diverso, ed è l'idea che non sia tanto la noia a scavare lentamente un solco nella coppia, quanto la difficoltà a convivere di due caratteri, prima attrattivi poi inconciliabili. In uno dei dialoghi più riusciti del film, Georgio fa notare alla moglie, decisa a divorziare, che lei si vuole separare per gli stessi, identici motivi per i quali si è innamorata di lui: la vita come un ottovolante, l'imprevedibilità del partner, il fascino dell'uomo sfuggente, il carisma che si estende alle altre donne, ora non sono più valori ma difetti, montagne insormontabili da superare. Gli episodi, i tradimenti, le umiliazioni contano, ma non quanto l'essersi accorti che chi abbiamo scelto non è affatto come pensavamo noi. O se lo è, non è detto che ci vada bene come compagno di una vita intera.
Il cinema, in questo caso, aiuta - con la sua capacità di riassumere esistenze intere in due ore - a narrativizzare e spiegare il sentimento amoroso, che per sua stessa natura vive di soggettività. A ben pensarci, nel rapporto di coppia, non può esistere alcun giudice, visto che la versione dei due amanti è viziata dall'ego di ciascuno, e che al di fuori della coppia non esiste nessun testimone credibile che abbia vissuto ogni momento della relazione. È il cinema a porsi come testimone: l'unica verità appartiene a chi scrive e dirige, perché - sia pure con atto arbitrario e autoritario - si prende la responsabilità di dire come sono andate le cose.
Ecco, sebbene troppo urlato e spesso sovrabbondante, Mon Roi ha questa piccola onestà di fondo, ovvero di non mentire. Lo conferma il fatto che, ascoltando le dichiarazioni dei protagonisti, si tratterebbe di un film sull'immaturità del maschio (Vincent Cassel), mentre (secondo molte critiche a Cannes), la regista ha involontariamente peccato di misoginia, facendo della sua Tony (Emmanuelle Bercot) una donna isterica e instabile. Meglio soprassedere, perché se c'è una lezione che ci sentiamo di voler accettare da Maïwenn è proprio quella che, in una relazione tempestosa, "masculin et fémenin" danno il meglio e il peggio di se stessi, dei proprio stereotipi e delle proprie identità umane e sociali. Nessuno escluso.
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