La vulnerabilità come risorsa. La sensibilità come strumento, per connettersi col mondo dei vivi e dei morti. La volontà di mettere in discussione il sistema e le sue briglie. Le sue ipocrisie. Chiara Fumai, con un lavoro performativo originale, complesso, apprezzato a livello internazionale, ha scelto di interrompere il suo viaggio, togliendosi la vita a 39 anni. Una grave perdita per il mondo dell’arte.
Chiara Fumai con Harry Houdini, Free like the speech of a Socialist, live performance, 15 agosto 2011. Ph. Matthew Stone
“Il corpo implica mortalità, vulnerabilità, partecipazione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo altrui, ma anche ai contatti e alla violenza”. Cercava disperatamente una dimensione dell’umano, Judith Butler, nel suo tentativo di esplorare i sentieri aspri della violenza e quelli vertiginosi della compassione.
E resta un destino di pluralità a individuarci come singolarità in contatto: comunità che condividono l’esposizione alla perdita, al dolore. Esseri mortali, capaci di compartecipare. Infinitamente vulnerabili. E in questo vicini, “al di là delle differenze storiche e geografiche”. Nel suo Violenza, lutto, politica, Butler, icona del femminismo americano, si appellava alla dimensione del “noi”. Se è vero che a legarci è l’esperienza del distacco ‒ “tutti siamo consapevoli di cosa significhi aver perso qualcuno” ‒ dalla dimensione privata a quella pubblica il passo è breve: “C’è anche il fatto che le donne e le minoranze, comprese le minoranze sessuali, sono, in quanto comunità, soggette alla violenza, costantemente esposte alla possibilità del suo esplodere. Ciò significa che ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo – in quanto luogo del desiderio e della vulnerabilità fisica, luogo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e assertiva. La perdita e la vulnerabilità sono conseguenza del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esposizione può derivare”.
Chiara Fumai ha scelto di andarsene, il 16 agosto 2017, con i suoi 39 anni di talento e di consapevolezza. Portatrice sana di una sensibilità insidiosa, luminosa. Affilatissima.
Chiara rivendicava il proprio essere erede del pensiero femminista. Una forma di riconoscenza verso qualcosa che era stato ossatura, motore, riferimento, per decenni e per generazioni. E lo faceva in un tempo – il nostro – che al termine “femminismo” aveva sottratto progressivamente senso e valore, fra letture controverse, usi pretestuosi, rivendicazioni infiacchite o inutilmente radicalizzate. Un termine, forse, non più capito più.
Parlava spesso di donne, Chiara Fumai, e della necessaria lotta contro quella visione “logocentrica” e “fallocentrica” che ha orientato (e ancora orienta) la civiltà occidentale. Una questione alta, intellettuale, spinta oltre le singole conquiste tradotte in leggi, in norme, in teorie sul diritto e la convivenza democratica. Il tema della lotta si faceva metafora di un cammino sempre necessario: scardinare i sedimenti profondi, le storture arcaiche, i vincoli che impediscono a chiunque di osare sguardi più acuti, di spingersi fin dove l’occhio non arriva, di interessarsi a ciò che non si spiega e di spezzare ciò che castra, che leva il respiro. Altre forme ‒ sotterranee ‒ di potere e di potenza.
L’arte diventava in tal senso occasione di provocazione, di liberazione e apertura. Esercizio di resistenza e spostamento, per opporre alla luce imperiosa del logos la sostanza misteriosa della notte, il movimento fluido, la progressione orizzontale, l’ubiquità, la ferita, il non senso e la molteplicità, la voce prima del segno, l’anarchico invece del dispotico. Tutto questo era, ed è, un discorso sul femminile.
Chiara Fumai, I Did Not Say or Mean ‘Warning’, 2013, Fondazione Querini Stampalia, Venezia. Ph. by Emiliano Aversa
ESSERE VULNERABILI, TRA L’IO E GLI ALTRI
Vulnerabilità e partecipazione. Che significa essere massimamente esposti: al desiderio, agli sguardi, alla sofferenza, alla perdita, all’iniquità, al contatto e alla violenza. Così scriveva Butler, mentre pare di sentirne un riverbero nel lavoro di Fumai. Un lavoro che non avrebbe potuto compiersi senza il rischio di un’esposizione totale: alle vite degli altri, alla morte degli altri, alle parole, le esperienze, le rivolte e le provocazioni di chi, lei, sceglieva di incrociare e riportare al mondo. Essere vulnerabili, dunque, come prima condizione per l’esercizio dell’ascolto e dell’immedesimazione.
Fumai nel suo lavoro usava il corpo. Il suo corpo. Tra i reading e le performance che la vedevano in scena, stava nella sua bellezza sobria, malinconica, schiva, tutta fragilità e impeto, severità e grazia. Partiva da sé per raggiungere gli altri. Anzi, per farsi raggiungere. Nel suo ridestare personaggi storici, ormai defunti, quasi sempre donne – ma non solo: dal pioniere dell’Italo Disco Nico Fumai, suo padre immaginario, al mitico illusionista Harry Houdini – sperimentava una specie di reincarnazione, si faceva medium, parlava con le loro parole, camminava col loro passo, prendeva in carico (e a cuore) le loro sfide.
Si trattava però di una scena senza ruoli, senza fiction. Scena, semmai, come “sfera della morte”, per dirla con Kantor. E dunque teatro come spazio di sopravvivenza del sacro.
Ogni performance era allora un’esplorazione notturna, un’avventura occulta, un’allucinazione a occhi aperti. Nessuno è più vigile di chi chiama a sé i superstiti, i fantasmi, le tracce nascoste. E l’arte non è che un modo per restare svegli a lungo e per guardare in profondità, catturando segnali invisibili, rimettendoli in forma, in ordine. Tramutandoli in linguaggio da offrire a una platea e facendo del linguaggio una forma di sovversione, di dissidenza: proprio come nella magia, nella filosofia, in una certa idea di politica, nella poesia e nell’occultismo. E nel teatro, certamente.
Chiara Fumai, The Book of Evil Spirits, waterside contemporary, London
SOGLIE, SPETTRI, RITRATTI
Chiara è passata di vita in vita, di spettro in spettro, di corpo in corpo, di testo in testo. Fino a raggiungere la morte. E ha vissuto restando nella “insidia della soglia”, come avrebbe detto Yves Bonnefoy. A sperimentare l’arte del trapasso e a farsi carico di biografie, di pensieri potenti, di scritture mute giunte dall’aldilà. La soglia. Là dove – tra esercizi di spiritismo e scrittura automatica, elementi ricorrenti nei suoi lavori – si ripete l’esperienza dell’illusione, del rischio. Quello che puoi trovare oltre la linea sarà conquista ma anche fallimento. Mai senso ultimo: l’esperienza medianica non dà tregua, la ricerca non finisce, nulla è trovato, risolto.
E ogni testo, ogni ritratto storico tracciato lungo quel bordo, mettendosi in contatto col regno dei morti, saranno giusto tentativi, presenze incompiute, capaci di continuare a morire. Ritratti, non maschere. Perché se la maschera rappresenta il volto del morto, come spiega bene Jean-Luc Nancy, “il ritratto mette la morte stessa all’opera: la morte all’opera in piena vita, in piena figura e in pieno sguardo”. Qualcosa che “fa ritornare dall’assenza” e “rammemora nell’essenza. È così che il ritratto immortala: rende immortale nella morte”.
A osservare il lavoro raffinato, colto, originale di Chiara Fumai, tutto si dispone con ordine. Tutto vive in una chiarezza estrema. E questo mondo di soglie, di passaggi, di memorie rideste, di ritratti come transizioni corporee e spirituali, ha la coerenza di un unico progetto artistico ed esistenziale, mentre anche la soglia tra la vita e la pratica dell’arte si assottiglia, si problematizza. Con tutte le conseguenze del caso.
LE DONNE DI CHIARA
Chiara Fumai è stata molte donne, puntualmente figure del margine, della penombra, della differenza e della contestazione. Nel 2013 fu la volta volta Valerie Solanas (1936-1988), scrittrice e attivista femminista statunitense. Di lei ha recuperò e riattualizzò, rileggendolo dal tavolo di casa sua e tramutandolo in nuova opera, il durissimo Manifesto SCUM del 1968, presentato alla IX edizione del Premio Furla. Scelta che le valse la vittoria.
Così Solanas apriva il suo scritto: “In questa società, per bene che ci vada, la vita è una noia sconfinata. In questa società nulla, assolutamente nulla riguarda le donne. Dunque a tutte le donne che non hanno né paura delle responsabilità né delle emozioni sconvolgenti non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, instituire l’automazione totale e distruggere il sesso maschile. Il maschio è completamente egocentrico, prigioniero di se stesso, incapace di osmosi con le cose, d’identificazione con gli altri, di amore, di amicizia, di affetto, di tenerezza. È un animale totalmente isolato, incapace di relazioni con chiunque”.
Chiara Fumai, La donna delinquente, 2011
Chiara, facendo suo un testo evidentemente provocatorio, volutamente estremo, si scagliava contro un sistema miope, castrante, gerarchico, ipocrita: sistema sociale, sistema dell’arte, sistema politico-culturale. Sistema che premiò la sua opera, con massima e splendida contraddizione: “È importante che un progetto del genere venga accolto favorevolmente in un Paese come l’Italia”, aveva dichiarato subito dopo la premiazione.
La questione femminista e l’impianto maschilista diventavano metafore radicali e strumenti di lettura della condizione umana e della cultura diffusa. Per un’opera, disse lei, “dedicata a tutte le femmine insolenti”. Tra le foto, le interviste e la documentazione video del progetto, si impongono la violenza del testo, la dolcezza dei modi, l’inquietudine non dissimulata e quella maniera tutta sua di stare nello spazio: elegante, austera. Magnetica nella combinazione di fragilità e di forza. L’insolenza del pensiero, la vulnerabilità come arma, la sensibilità come spinta sovversiva.
Nel 2011 Fumai evocò Eusapia Palladino (1854-1918), spiritista e medium italiana, attivissima in tutta Europa, consulente dello Zar di Russia, citata da Arthur Conan Doyle nel suo History of Spiritualism. I suoi poteri paranormali avevano incuriosito – e in moti casi persuaso – anche studiosi, intellettuali, ricercatori. Con La donna delinquente, installazione del 2011 vincitrice del Premio Lum, Eusapia riviveva tra sedie appese al soffitto, un tavolo fluttuante e una serie di “trucchi” messi a nudo. Un omaggio a un personaggio geniale, di estrazioni umili, che grazie a una volontà allucinata seppe opporre al sistema scientifico dominante il suo personale anti-sistema: metafisico, surreale, ingannevole, dissidente.
Chiara Fumai. Der Hexenhammer, Museion, 2015
Invitata a dOCUMENTA(13) nel 2012, Chiara presentò Shut Up, Actually Talk, rileggendo brani dai saggi Sputiamo su Hegel e Io dico Io di Carla Lonzi (1931-1982), filosofa e critica d’arte femminista. A performare i testi dei personaggi da freak-show, interpretati da Chiara stessa: la strega Zalumma Agra, nel 1864 arruolata dal circo Barnum, e la celebre donna barbuta Annie Jones, vissuta in America tra il 1865 e il 1902. Teatro delle azioni – oltre al tetto del Fridericianum – un’inquietante casetta bianca, occupata da mobili rovesciati e da un armadio contente lettere di artisti e scrittori del XXI secolo, ricevute tramite scrittura medianica: “La casa è stata costruita sul modello della casa delle Fox Sisters, due grandissime medium ottocentesche. Si tratta di un tributo alla matrice surrealista presente in tutte le pratiche spiritiche, specialmente quelle femminili. Ho giocato con l’idea della “haunted house”. Questi demoni, questi fantasmi, parlano di femminismo, di principi anarchici, di decostruzione, di superamento della dialettica e celebrano l’anormalità”.
Nel 2015 Fumai scelse di essere Ulrike Meinhof (1934-1976), giornalista, terrorista e rivoluzionaria tedesca, cofondatrice del gruppo di estrema sinistra Rote Armee Fraktion. Una vita all’insegna della clandestinità, della resistenza armata e della guerriglia urbana, contro l’imperialismo e la legge del Capitale. L’azione Der Hexenhammer si svolse a Bolzano, dentro la project room di Museion e tra la sale della personale di Rossella Biscotti L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi. Chiara-Ulrike, raccontando la sua storia di impegno politico e di percorsi sediziosi, accompagnava il pubblico tre le opere di Rossella, per una visita guidata fatta di stratificazioni ed evocazioni orali. Il tutto mescolato con simboli del Malleus Maleficarum, trattato medievale contro la stregoneria pubblicato da due frati domenicani nel 1478. Un wall painting in bianco e nero riportava un’illustrazione cinquecentesca – due donne che davano la comunione a una terza donna inginocchiata – sormontata da una frase di Meinhof: “O fai parte del problema o fai parte della soluzione. Non esiste via di mezzo”.
Radicalità della lotta, quando la lotta è avventura visionaria. Sulla soglia tra la vita e la morte, tra l’ordine dato e la sua sovversione, tra il mondo visibile e il suo doppio segreto. Esserci, cambiare pelle, quindi sparire. Nessuna via di mezzo.
Helga Marsala