Parlare di Francis Ford Coppola significa porre sotto i riflettori una delle personalità più particolari del cinema americano. Sono molti i registi che si distinguono per originalità dello stile, per sperimentazione, per innovazione stilistica. Ma nessuno come Coppola ha avuto la capacità di controllare il mercato del film, avendo influenza diretta sulla realizzazione dei progetti da firme illustri come George Lucas, Wim Wenders, William Friedkin, di costruire una sorta di impero creativo grazie alla prole piena di talento (Sofia regista e Roman sceneggiatore) e di presentare al pubblico la propria opera.Un opera, quella di Coppola, mai casuale, a cominciare dai primi esperimenti nel mondo cormaniano del b-movie, passando per le pellicole di botteghino, fino ad arrivare ai cult-movie che si studiano in accademia. Tra Oscar e Palme d'Oro La sua è da sempre una ricerca registica instancabile, rigorosa e affamata, generosa soprattutto dal momento che può contare su una salda base di mestiere nella sceneggiatura.
Si potrebbero citare il suo uso del sonoro, coinvolgente e appassionante, della fotografia di interni angusti e del colore di esterni grandiosi, la sua meticolosa attenzione ai dialoghi e alla direzione degli attori, che proviene direttamente dagli studi di drammaturgia e teatro, ma anche la sua padronanza del mezzo cinematografico, in particolare dei movimenti di macchina, del piano sequenza e di certe trovate visive che ci catapultano decenni addietro, dove il cinema si faceva con la musica e gli sguardi.Uno sguardo, appunto, è quello che cerchiamo di dare di questo regista, annotando qui di seguito la sua biografia e la sua filmografia ragionata e completa di commento.
BIOGRAFIA:
(Detroit, 7 aprile 1939)Il padre, un noto musicista jazz di nome Carmine Coppola, era originario di Bernalda, in provincia di Matera. Emigrati negli Stati Uniti in cerca di fortuna, i genitori del piccolo Francis incoraggiano da subito la sua passione per la letteratura e per le arti grafiche. Superato con ottimi voti il liceo, s’iscrive alla UCLA (Università della California di Los Angeles), dove studia cinematografia. La prima occasione di lavorare nel cinema arriva grazie all’équipe di Roger Corman, nella quale Coppola entra dalla porta principale, come assistente alla regia. Nel frattempo, tra il 1960 e il ‘62, aveva già all’attivo qualche cortometraggio da regista (“Aymmon the terrible”, 1960, “The peeper: the wide and open spaces”, 1960 e “The belt girls and the playboy”, 1962). Coppola è prima di tutto un ottimo sceneggiatore e nel 1971, all’età di 32 anni, vince il premio Oscar per la sceneggiatura di “Patton” (in Italia “Patton, generale d’acciaio”). La vera consacrazione, però, arriva l’anno dopo, con il lavoro totalmente autoriale alla trilogia de “Il padrino” (1972, ’74 e ‘90). Il successo è senza precedenti: la trilogia conquista 6 oscar e 6 Golden Globe, per un totale di circa 30 nomination. Nel 1974 Coppola sceneggia, per la regia di Jack Clayton, il remake de “Il Grande Gatsby” e inaugura la carriera di produttore insieme a George Lucas (american Zoetrope Production), di cui esce “American Graffiti”. Il secondo lavoro edito dalla Zoetrope è il mastodontico progetto di “Apocalypse now” (1979). Ispirato al romanzo “Heart of Darkness” (“Cuore di tenebra”) di Joseph Conrad, quello considerato uno dei film di guerra più significativi della storia del cinema, vede la luce dopo innumerevoli difficoltà produttive e distributive, mandando quasi in bancarotta la Zoetrope. Nonostante questo c’è rimasto carburante a sufficienza per finanziare nel 1981 il restauro di una pellicola del 1972, “Napoléon” e per produrre e dirigere, l’anno dopo, il musical sperimentale “Un sogno lungo un giorno”, che però non sfonda al botteghino. E allora si riparte con le major, per cui Coppola dirige il fortunato “The outsiders” (“I ragazzi della 56esima strada”, 1983), “Rumble fish” (“Rusty il selvaggio”, 1983) e “Cotton Club” (1984), che lancia Richard Gere. Nel 1986 la premiata ditta Lucas/Coppola produce un film di 17 minuti con Michael Jackson destinato ai parchi a tema Disney, che diverrà il film più costoso al minuto (1 milione di dollari per ogni minuto di pellicola). Prima della fine del decennio Coppola dirige ancora “Peggy Sue got married” (“Peggy Sue si è sposata”, 1986), “Gardens of stones” (“I giardini di pietra”, 1987), “Tucker” (1988) e nel 1990 si chiude la trilogia de “Il padrino”, con il terzo capitolo, che non ottiene però il successo sperato. È con il film successivo che Coppola riconquista il trono, “Bram Stoker’s Dracula” (1992). Una produzione mastodontica con mastodontiche aspirazioni e latrice di mastodontiche aspettative. Tutte soddisfatte. Il film attraversa ogni genere e colpisce dritto al cuore, o forse dovremmo dire al collo, anche grazie all’impiego di uno dei cast più formidabili (Gary Oldman, Anthony Hopkins, Keanu Reeves, Wynona Rider, Tom Waits). Insomma, una gioia per occhi e cuore.Seguono quattro anni di silenzio e, nel 1996, un film molto più in sordina, “Jack”, pellicola in cui un ottimo (come sempre) Robin Williams interpreta un bambino intrappolato nel corpo di un 40enne. L’anno successivo Coppola, con “The rainmaker” (“L’uomo della pioggia”, 1997), esplora ancora un genere nuovo, confondendo il legal alla John Grisham, dal cui romanzo è tratta la sceneggiatura, con la denuncia sociale alla “Erin Brockovich”. Il film è apprezzato, soprattutto dalla critica, ma questo non basta a Coppola, che si ferma per ben 10 anni. Ha il tempo di far uscire nelle sale, finalmente, una versione “extended” di “Apocalypse Now” (“Apocalypse now Redux”, 2001), ma, se si eccettua il lavoro di produttore, la creatività torna solo nel 2007, anno in cui viene annunciata l’uscita di “Youth without youth”. La produzione è indipendente, le location a Bucarest, lontano dagli Studios. E torna il Coppola amante del rischio, in una ricostruzione dell’Europa dell’Est alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

FILMOGRAFIA CRITICA:
“Tonight for Sure” (1962), con Karl Shanzer, Don Kenney, Marli Renfro, Virginia Gordon.La storia di Benjamin Jabowsky e Samuel Hill, due vecchi moralisti che si mettono in testa di smascherare un locale di spogliarello e finiscono per ricordare e raccontarsi a vicenda le proprie esperienze con donne “scostumate”.È il primo lungometraggio di Coppola, appena 22enne, che sembra voler sperimentare il tutto per tutto, rischiando molto soprattutto nella resa della narrazione, che appare volutamente confusa. Non a caso Coppola diverrà a breve il padre della New Hollywood. Qui dà il tutto per tutto per farsi notare e mette in mostra diverse bellezze femminili, saccheggiando le copertine di Playboy.Il film non fu molto amato dalla critica, che lo usa per ricordare gli “umili natali” di quello che in breve diventò una delle personalità più influenti di Hollywood.
“Terrore alla tredicesima ora” (Dementia 13) (1963) con Luana Anders, William Campbell, Barbara Bowling, Eithene Dunne.Durante una riunione di famiglia in un castello irlandese i nobili Halloran si ritrovano per ricordare Kathleen, una bambina annegata otto anni prima. Tra gli intrighi per un'eredità, riemergono misteriosamente alcuni oggetti personali della bambina dal lago della tenuta, mentre un maniaco armato d'ascia comincia a compiere delitti a catena. È uno dei film a basso costo di Roger Corman, produttore che aveva preso Coppola sotto la propria ala. I critici lo considerano il primo lungometraggio vero e proprio del regista italo-americano, che anche qui fa di tutto per dimostrare le proprie capacità, mettendo in campo una avventurosa sperimentazione registica in stile gotico, senza però rinunciare, in sede di sceneggiatura (anche quella firmata da lui) a tratti psicanalitici e critica alla famiglia. Il soggetto originare era di Charles Hannawalt, qui direttore della fotografia.
“Buttati Bernardo!” (You're a Big Boy Now) (1967) Con Rip Torn, Karen Black, Elizabeth Hartman, Geraldine Page, Peter Kastner, Tony Bill.Il protagonista è Bernardo, un italo-americano 19enne impiegato alla Biblioteca di New York e succube ancora del controllo famigliare, che lo costringe a vivere a guinzaglio corto a casa di un’anziana tenutaria in continuo contatto con i suoi genitori. Mentre gli amici fanno di tutto per aiutarlo ad emanciparsi, spunta il pericolo dell’amore per un’attrice poco di buono.È il film con cui Coppola presenta la tesi di master alla UCLA e dimostra che il regista è ormai un “big boy”. Il tema della scoperta dell’indipendenza e delle prime difficoltà della vita diverrà presto un luogo comune di certo cinema dell’epoca, una sorta di piccolo manifesto della New Hollywood. Basti pensare a “Il laureato” e “Conoscenza carnale” di Mike Nichols, film di successo maggiore che un po’ oscurarono il valore di questo primo Coppola, così attento non solo all’elegia del romanzo di formazione, non solo all’esercizio registico nel filmare la Grande Mela, ma anche alla coscienza politica “liberal” cui Coppola mostra di volersi votare fin da giovane (qui ha 27 anni ed è al suo terzo lungometraggio). Nonostante sia, appunto, un prodotto esemplare di quella New Hollywood di cui Coppola è il decano, qui il sapore dato ai dialoghi (di F.F.C., sul romanzo di David Benedictus) e ai protagonisti ricorda più certi stilemi proprio del cinema europeo contemporaneo, tanto che, dice qualcuno, “in Peter Kastner ci sembra di rivedere un Jean-Pierre Leaud” (l’attore-feticcio di Jean-Luc Godard) alle prese con il suo “nuovomondo”. A saltare agli occhi, poi, è soprattutto l’innovazione tecnica, che riporta di nuovo allo schema “Saggio di fine corso”, fatta di continui interventi sul fotogramma.
“Sulle ali dell'arcobaleno” (Finian's Rainbow) (1968) con Fred Astaire, Petula Clark, Tommy Steele.La storia, tratta da un musical del 1948 di Saidy-Harburg-Lane, racconta l’arrivo di un anziano furfante irlandese nella Valle dell'Arcobaleno. Come un genio della lampada, il protagonista possiede un vaso magico capace di realizzare i tradizionali tre desideri. È tempo per Coppola di mettersi alla prova, accettando anche la regia di un genere che, si trova d’accordo all’unanimità la critica, non gli appartiene affatto. La bravura di Fred Astaire non è resa alla meglio da una fotografia distratta e dalla regia troppo frettolosa. Il primo fiasco di Coppola, perdonabilissimo. “Non torno a casa stasera” (The Rain People) (1969) Con Robert Duvall, James Caan, Shirley Knight.Una sposina abbandona il tetto coniugale quando scopre di essere incinta e affronta un viaggio in auto in solitaria alla scoperta della propria libertà. Concede al marito solo sporadiche telefonate, senza mai permettere di raggiungerla. La svolta avviene quando dà un passaggio a un atletico giocatore di baseball, che si rivela nient’altro che un bambino cresciuto.Tra il tema on the road e la critica alla terrificante provincia americana che un po’ ricorda i romanzi di John Updike (“Sposami”, “Corri coniglio” e “Riposa coniglio”), Coppola scende anche giù a trovare gli intimismi di Tennessee Williams, dimostrando alla protagonista (una splendida Shirley Knoght) come sia impossibile fuggire le proprie responsabilità. L’epilogo è sanguinoso, come nel tentativo di punire questa “gente della pioggia”, che pretende e tenta d’essere quello che non è. Ottimo lavoro degli attori e della scura regia.
“Il Padrino” (The Godfather) (1972) con Robert Duvall, James Caan, Al Pacino, Marlon Brando, Diane Keaton.Tratta dal romanzo omonimo di Mario Puzo (che collabora alla sceneggiatura) l’epopea della famiglia mafiosa Corleone dal 1946 al 1955. Il boss Vito Corleone (Marlon Brando), il più potente “padrino” della mafia italo-americana newyorkese e capo assoluto del gioco d’azzardo, rifiuta di concedere la propria benedizione e il proprio favore giudiziario al trafficante di droga Virgil Sollozzo, che in cambio scatena una faida interminabile, di cui rimangono vittima in molti. Dopo mille botta e risposta sanguinosi, il figlio-erede di Vito, Michael (Al Pacino), “rimetterà ordine” con una strage finale, preparando la famiglia Corleone a trasferirsi a Las Vegas e Reno, dove il gioco d’azzardo ha l’aria di star diventando legale.Le leggende legate a questo film sono innumerevoli. Ed è leggenda il film stesso. 3 Oscar, 5 Golden Globe e la fedele promessa di un seguito. Nonostante le polemiche degli italo-americani, che, come sempre, accusarono Coppola di diffamazione. La verità è che “Il padrino” è non solo una lezione di “maffia-movie”, ma proprio una lezione di cinema. Tra le musiche (di Carmine Coppola, padre del regista), la fotografia e un cast spettacolare, il largo respiro delle riprese dà spazio a tutto e tutti. Marlon Brando, che faticò non poco per ottenere la parte, diviene, come sempre, uno stupefacente camaleonte che non si risparmia anche a costo di qualche gigioneria (vedendo il personaggio di Don Vito come un mastino, al provino si era presentato con dell’ovatta in bocca, che gli modificava la faccia, soluzione conservata anche a parte ottenuta, grazie però a un sofisticato apparecchio odontoiatrico). Al Pacino è alla propria consacrazione e trasmette crudeltà inaudita prima, mista a quello che sarà l’emblema del “mafioso proprio malgrado”. Brando rifiutò il suo premio Oscar e non si presentò alla cerimonia di premiazione, in disaccordo sui maltrattamenti dei nativi americani da parte degli Stati Uniti e di Hollywood. Al suo posto inviò alla premiazione una finta squaw chiamata Sacheen Littlefeather per leggere il suo discorso di protesta. Più tardi si scoprì la vera identità della ragazza, Maria Cruz, un'attrice semi-sconosciuta.Al di là delle curiosità, “Il padrino” è un film epocale per il modo in cui racconta tutto un mondo. Sono 61 le scene in cui gli attori solo mangiano e bevono, e la parola “mafia” non viene mai pronunciata, per scelta dei due sceneggiatori. Il tema della fedeltà alla famiglia, della dannazione eterna e delle classi sociali re-interpretate in termini di sangue “nobile” vengono resi alla perfezione e non mancano di mostrare, talvolta con la crudezza allora inedita, almeno da parte di Coppola, tutte le possibili e terribili conseguenze. Indiscutibile.
“La conversazione” (The Conversation) (1974) con Gene Hackman, Robert Duvall, Harrison Ford.Uno specialista in intercettazioni (imponente Hackman), sempre vissuto immerso nel lavoro, esce dall’assuefazione e riesce a guardare il tutto da una prospettiva dotata anche di coscienza. Il senso di colpa e di nullità è dietro l’angolo e il dramma si fa interno e angosciante. “Contemporaneamente al precisarsi dell'angolo visuale, anche i suoni prendono corpo. Da questo momento, per tutto il film, la realtà è vissuta da una sola angolazione, quella di Harry, che proietta ed espande la sua lettura nel mondo sulla realtà esterna. Tanto che tutto il film, al limite, potrebbe essere una proiezione immaginaria del protagonista, una condensazione dei suoi incubi. Coppola gioca con quest'ambiguità, al punto che non rivela sino in fondo se le tracce (e gli echi) del delitto sono reali o solo immaginati dal paranoico protagonista”, scrive Vito Zagarrio nel Castoro dedicato a Coppola. Il richiamo più immediato è all’Antonioni di “Blow up”, anche qui c’è lo sforzo di una meta-visione che, mischiato con movimenti di macchina e suspense alla Hitchcock, ne fa un esercizio in stile europeo macchiato di americanità indipendente. Candidato all’Oscar per film e regia e, molto di più, Palma d’Oro al Festival di Cannes.
“Il Padrino parte II” (The Godfather, Part II) (1974) con Robert Duvall, Diane Keaton, Robert De Niro, Al Pacino, John Cazale, Lee Strasberg.Secondo capitolo della saga dei Corleone. Questa volta l’azione è spezzata in due. Mentre prosegue l’ “impero” di Michael (Pacino) in Nevada, Coppola ritrae capitoli della giovinezza del padre Vito (De Niro), dall’emigrazione alle prime incursioni della malavita. Le vicissitudini a sfondo faida dell’avido Pacino in corsa contro un mondo che cambia e contro interessi sempre meno legati all’onore ma sempre più ai soldi, si staglia sullo sfondo di un “ritratto del mafioso da giovane”, in cui De Niro gli fa da controscena-specchio in un perfetto faro-guida per l’inferno. La trama si fa sempre più intricata, ingrossa il film di costume alzando la taglia a kolossal e vale ben 6 Oscar, il doppio del suo predecessore. Forse un po’ più americano, ma comunque indimenticabile e, tutto sommato, inscindibile dal primo, al quale infatti si sceglie di affiliarlo con la dicitura “parte seconda”.
“Apocalypse Now” (1979) con Robert Duvall, Dennis Hopper, Martin Sheen, Marlon Brando, Frederic Forrest, Harrison Ford.Saigon. Il capitano Willard dei servizi speciali riceve l’ordine di risalire un fiume cambogiano alla ricerca del colonnello Kurtz, militare impazzito e rifugiatosi nella giungla, dove combatte una guerra tutta sua. Lo spunto è “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, le ambizioni però superano il modello di molto. Discontinuo, troppo lungo, estetizzante, compiaciuto, pretenzioso, rischioso, visionario ed eccessivo. Non basta, tutto questo, a demolire nulla di quello che di certo è tra i più significativi film sul Vietnam e sulla guerra in generale. Come al solito Coppola non dimentica mai l’Europa: il disastroso ritratto dell’imperialismo americano, offerto dall’interpretazione insuperabile di Marlon Brando (Kuntz), ricalca quello europeo delle guerre precedenti. La lama della riflessione filosofica e psicologica che in Conrad affonda come un coltello nel burro, è qui resa, giustamente, in termini visivi ancor più che letterari (la sceneggiatura è di John Milius, la fotografia di Vittorio Storaro, premiato con l’Oscar): la discesa del fiume lordo di cadaveri, infestato dal clima pestilenziale, altro non è che una discesa negli inferi, resa ancor meglio dall’episodio con Robert Duvall (quello famoso della “Cavalcata delle valchirie” che accompagna l’arrivo degli elicotteri), una sorta di Minotauro di questa e altre bolge. La giungla avvolge le sue prede con fauci scure e insidiose e quando Willard (Sheen) giunge alla tana del lupo la sua mente è già offuscata dall’orrore. Storica l’apparizione di Brando, i cui muscoli, la cui imponenza, le cui grosse mani e la cui testa rasata Storaro fa emergere appena da un buio solido e senza fondo. Ancora un sinonimo di quel “cuore di tenebra”, ormai impossibile da riportare alla luce.
“Un sogno lungo un giorno” (One from the Heart) (1982) con Frederic Forrest, Raul Julia, Teri Garr, Nastassia Kinski.Il tira-e-molla tra due innamorati in crisi li porta a una notte di follie ciascuno, lui (Forrest) con un’acrobata da circo (Kinski), lei (Garr) con un pianista-latin lover (Julia). Tutto in una Las Vegas mai così luminosa e avveniristica. L’happy end è dietro l’angolo e tutto non è che una favola, “un sogno lungo un giorno”, come dice il titolo italiano.Coppola, reduce da due successi enormi come “Il padrino” e “Apocalypse now”, ha il diritto di lasciar andare la mano, anche se questo quasi sbatte sul lastrico la Zoetrope. “One from the heart” gioca con una stanza dei bottoni di effetti visivi nuovi di zecca, ai quali Storaro si adatta alla meglio, proiettando luci e colori in tutte e da tutte le direzioni. Forse il risultato non è dei migliori, essendo poi la storia un romanzetto rosa di poco conto e i personaggi appena accennati, ma non si può negare che sia un piacere per gli occhi e le orecchie (sbandate musiche di Tom Waits) e, nel dipingere a olio e polvere di stelle questa Las Vegas dove anche e soprattutto l’amore è un gioco, forse Coppola ci versa un po’ d’auto-ironia. 26 milioni di dollari (circa 30 miliardi delle lire di allora) per un po’ d’auto-ironia e qualche bell’effetto probabilmente sono troppi. Ma chi può biasimare un genio che sperimenta a proprie spese? Forse il pubblico, ma soprattutto la critica, benché possa restare interessante dove questo cinema vada a finire.
“I ragazzi della 56ª strada” (The Outsiders) (1983) con C. Thomas Howell, Diane Lane, Matt Dillon, Patrick Swayze.Nella città di Tulsa, i “greasers” (ispano-americani, capelli lunghi e imbrillantinati) sono ragazzi di strada e hanno come nemici la banda dei soc(ials), bianchi e benestanti. La contesa è sul territorio e sulle ragazze, il risultato è qualche bella rissa e ogni tanto un morto. Una sorta di “West Side Story” meno romantico, e senza balli e canti, tratto dal best-seller della sedicenne Susan E. Hinton. Grande trampolino di lancio per giovani talenti, tra i quali svetta Matt Dillon come bello e dannato. Un altro film di transizione per Coppola, che affida ancora al padre le musiche e si diverte dietro la macchina da presa con un “The warriors” meno sovversivo, più accattivante, che, in alcuni tratti, forse sfiora un po’ il manicheismo.
“Rusty il selvaggio” (Rumble Fish) (1983) Con Mickey Rourke, Matt Dillon, Dennis Hopper, Nicolas Cage, Diane Lane, Tom Waits, Lawrence Fishburne.Il sedicenne Rusty (Dillon) sogna di ribellarsi al padre alcolizzato (Hopper) e diventare come il fratellone (Rourke), eroe solitario a cavallo della sua moto. Si caccia nei guai e il fratello, che lo trae d’impaccio, ci lascia le penne. Ancora a Tulsa, Oklahoma, ancora una storia di ragazzi, tratto dal seguito di “The outsiders”, anche qui da un romanzo di Hinton, stavolta con più successo. Il vero traguardo, oltre al personaggio di Hopper che farà scuola, è la sottigliezza raggiunta dal rapporto tra i due fratelli. Il titolo originale allude ai “pesci tuono”, che attaccano i loro simili, ma solo quando sono tenuti in cattività.
“Cotton Club” (The Cotton Club) (1984) con Gregory Hines, Richard Gere, Diane Lane, Nicolas Cage, Bob Hoskins.Uno dei jazz-club più famosi della storia (si trova ad Harlem, New York) è teatro di una mini-saga di gangster, amori, piombo e musica.Un cast eccezionale (Gere suona davvero la cornetta) fa di questo uno dei migliori film di gangster anni ’80 insieme a “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Tutto l’immaginario del jazz, musicato da Monsignor Duke Ellington. Fotografie e costumi da Oscar. Vivacissimo nella narrazione.
“Peggy Sue si è sposata” (Peggy Sue Got Married) (1986) con Kathleen Turner, Barry Miller, Nicolas Cage, Jim CarreyPeggy Sue va con la figlia al ballo annuale degli ex-studenti, dove viene eletta reginetta. Dopo uno svenimento si ritrova negli anni ’60, con la memoria e l’esperienza del caso.Melanconico revival a un anno da “Ritorno al futuro” di Zemeckis. Un tripudio di luci e situazioni divertenti, non senza ironia, ma, soprattutto, con una buona dose nostalgica che vince tutti, forse gli americani ancora di più. “Ma la mano di Coppola si sente eccome”.
“I giardini di pietra” (Gardens of Stone) (1987) con James Caan, James Earl Jones, Anjelica Huston.Al cimitero militare di Arlington, Virginia vengono seppellite da sempre le vittime di guerra. I sergenti Hazard e Nelson accolgono una recluta smaniosa di recarsi in Vietnam. Il ricordo del monito del vecchio Hazard riporta alla luce la visione fatalista dell’esercito come istituzione.Grande sforzo di scenografia, sceneggiatura e cast, per raccontare come l’etica della famiglia alla John Huston (di cui Angelica è la figlia) sia morta e pronta per essere sepolta accanto alle proprie vittime. Della guerra rimane questo, una distesa di croci quasi anonime, di fronte alle quali ogni corsa all’onore appare vana. Tutto in un misto di visionarietà un po’ messianica cui Coppola spesso tende in questa fase della carriera. Caan (Hazard) supera tutti, soprattutto nel vincente confronto con l’amica sinistrorsa (Huston).
“Tucker, Un uomo e il suo sogno” (Tucker, the Man and His Dream) (1988) con Martin Landau, Jeff Bridges, Frederic Forrest.La vera storia di Preston Tucker, geniale inventore che nel 1945 millanta di poter rivoluzionare il trasporto su quattro ruote. La multinazionali, però, decidono di fermarlo, con successo.Pescando in un ricordo d’infanzia (il padre era tra i finanziatori di Tucker), Coppola pilota questa parabola del successo negato con estrema agilità. La lotta per conseguire la propria ambizione, per “la ricerca della felicità”, il sogno americano nell’industria del cambiamento è presto metafora delle difficoltà di chi del cinema vuole fare un’arte d’innovazione e ricerca. Lo sforzo degli attori è notevole (Jeff Bridges convince del tutto) e la sceneggiatura vola alto e bene, senza però lanciare il film nel firmamento dei più amati dal pubblico.
“New York Stories” (1989) - episodio La vita senza Zoe (Life without Zoe) La storia della dodicenne Zoe, i cui genitori, sempre in viaggio, l'hanno alloggiata in un albergo di lusso dove lei conduce vita da gran signora insieme a un cameriere di fiducia. A scuola la ragazzina fa amicizia col figlio d'uno sceicco, ed è grazie a lui che può rimediare a un pasticcio fatto da papà (Giancarlo Giannini) suonatore di flauto. Forse non il miglior episodio del film (con Scorsese e Allen), ma la scenografia di Dean Tavoularis e la fotografia morbida di Vittorio Storaro sono i meriti maggiori di questa “novella realizzata da Coppola in famiglia (c'è anche la musica del padre, la sorella Talia Shire e una Coppolina in fasce) ma senza memorabili invenzioni”.
“Il Padrino parte III” (The Godfather Part III) (1990) Con Andy Garcia, Joe Mantegna, Diane Keaton, Al Pacino.Terzo capitolo della saga dei Corleone. Il vecchio e malato Don Michael è in cerca di un erede e decide di adottare l’ambizioso Vincent, figlio illegittimo di Sonny. Tra riferimenti alla morte di Papa Luciani, è durante una rappresentazione de “La cavalleria rusticana” avviene la strage finale.Il terzo, ultimo e più debole anello della catena-padrino, oltretutto l’unico non voluto da Coppola, che lo realizza più a scopo commerciale. La resa come al solito è sopraffina, anche grazie alla fotografia e alle musiche. Del senso di decadenza che scorreva nei primi due, qui resta ben poco, tutto molto di maniera e poco sincero, ma, di nuovo, senza nulla togliere all’arte di un maestro come Coppola, che ormai dirige film di quest’imponenza (56 milioni di budget) con l’agilità di un ballerino di tip-tap.
“Dracula di Bram Stoker” (Bram Stoker's Dracula) (1992) con Gary Oldman, Winona Ryder, Anthony Hopkins, Keanu Reeves, Tom Waits.La struggente storia del Conte Dracula, ex guerriero cristiano rimasto vedovo a causa di una falsa notizia, che rinnega Dio e la chiesa, bevendo il sangue e consacrandosi a un’eternità di tenebre. Per puro caso il vampiro incontra, secoli dopo, la reincarnazione della sposa trapiantata a Londra e decide di fare di tutto per riaverla con sé. Grande dispiego di orrore, sangue e stregoneria, solo al servizio di quell’amore che ha attraversato i secoli.Più che confrontarsi con i numerosi rivali del passato, Coppola torna alla radice. Riapre il romanzo di Bram Stoker, che accredita addirittura nel titolo, e ne trae fuori tutta la linfa tragica, condendola con gusto “vampiresco-cinefilo”, in un turbine di citazioni che riportano in vita decenni di teoria della rappresentazione. Tutto con pochi effetti speciali e molto lavoro di macchina, costumi e trucco, piuttosto investendo in quello che si ricorda come uno dei cast meglio assortiti del secolo. Tutto in stato di grazia. Attori straordinari tenuti da Coppola segregati nella sua villa di montagna, dove hanno imparato a conoscersi tra loro, a studiare i personaggi, a scrivere sulla stessa scena decenni e decenni di storia, in una narrazione senza tempo.Un film di cui si potrebbe e dovrebbe parlare a lungo, che respira e urla a pieni polmoni in ogni scena. Forse il migliore Coppola di sempre, quello a briglia totalmente sciolte.
“Jack” (Jack), (1996) con Robin Williams, Diane Lane, Bill Cosby.Affetto da una rara malattia che lo fa invecchiare precocemente, Jack (Williams) si ritrova con il cervello di un bambino di 10 anni in un corpo che ne ha 30 di più. Le vicissitudini sono molte, dalla gara di scorregge con i compagni di scuola all’avventura con la procace madre di uno di loro, dalla crescita di una folta barba alla morte di una farfalla vissuta con commozione.La critica ha bollato il film come “film commerciale con emozioni a buon mercato” o addirittura come “parco giochi per Robin Williams”, eppure qualche merito c’è eccome. Questa sorta di Peter Pan (personaggio che Williams aveva già interpretato in “Hook”) al contrario, Coppola la firma con rara delicatezza e a fargli scudo c’è pur sempre l’ispirazione a un fatto reale, questa crudele malattia. La parola chiave è comunque “paradosso”, una disfunzione che dal fisico passa allo spirituale e crea, oltre che mille situazioni divertenti, la tenerezza per un individuo che finirà per non aver vissuto né la giovinezza, né l’età adulta. Tutto per “colpa” di Madre Natura. Più malinconico di così…
“L'uomo della pioggia” (The Rainmaker) (1997) con Mickey Rourke, Jon Voight, Danny DeVito, Matt Damon.Un giovane e rampante avvocato (Damon) insieme al paralegale DeVito si battono per l’utopistica causa contro una compagnia d’assicurazioni che ha negato le cure a un leucemico finito poi male. Il contatto è, ovviamente, ravvicinato con la realtà struggente del malato e della malasanità e con quei lobbisti senza scrupoli (un diabolico Voight) che finiscono per cedere.L’end non è mai tanto happy quando la vicenda particolare rimanda a una situazione generale disastrosa. Qui nel bersaglio c’è la malasanità americana, fotografata con colori grigi e combattuta più fuori dal tribunale che dentro. Coppola, che adatta e pota il best-seller di John Grisham, punta più ai sentimenti, alle crisi di coscienza, ai volti dei giurati e agli scontri nelle abitazioni private. Sulla sua scia (dove già “Jerry Maguire” nel ’96) s’incanaleranno “Erin Brockovich” e “The Insider”, in un certo senso ancora alla ricerca di un vizio della società, quello del potere e del denaro, come ne “Il padrino”, nonostante questa pellicola sia più di confezione che altro.
“Youth Without Youth” (2007) con Tim Roth, Alexandra Maria Lara, Bruno Ganz, Matt Damon.La storia vera del poeta Mihai Eminescu, professore universitario che cambia totalmente vita dopo un drammatico incidente negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale. Diventerà un fuggitivo e dovrà scappare attraverso il continente indoeuropeo, tra la Romania, la Svizzera, Malta e l’India.Un film anomalo per Coppola, che torna dopo 8 anni di assenza, vissuti in una sorta di ritiro. “Oggi come oggi”, dice il regista stesso, «gli studios hollywoodiani vogliono solo investire su progetti privi di rischi, ma non ci può essere arte senza rischio. Non rischiare nel campo dell'arte è come non fare sesso e pretendere di avere dei bambini”. Ecco perché il film, a basso budget, girato a Bucarest, è autofinanziato. Quanto al ruolo di produttore Coppola ha fatto già scuola, ma preferisce investire negli altri. Per sé ha tenuto questa sorta di Iliade moderna, che ama rincorrere con la sua regia d’equilibri e sottrazioni, consegnata anche molto al genio interpretativo di Tim Roth.
(Sergio Lo Gatto - FondazioneItaliani.it)