Martin Scorsese.

Martin Scorsese è senza dubbio uno dei cineasti più importanti della sua generazione: tra i sovrani della New Hollywood e i fondatori della Film Foundation, ha fatto la storia del cinema americano e mondiale. Ricondurlo a un genere è cosa complicata, fortemente a rischio di banalizzazione. Di certo tracce della sua ricerca si trovano nella Nouvelle Vague francese, nel Neorealismo italiano e dal cinema indipendente di John Cassavetes, dove Scorsese è andato a pescare le realtà semplici e spesso agghiaccianti. Amante sfegatato del documentario, genere al quale tornerà spesso nella sua florida carriera, lo trascina volentieri all’interno della fiction, una fiction così geniale nel tessere trame narrative sempre fresche e di grande intrattenimento. Le tematiche, quelle sì, possono forse essere capitolate: i giochi di potere, le realtà dei bassifondi metropolitani, i segreti, le tradizioni di tanti micro-popoli, la mafia, l’autorità corrotta, il mal onore, le leggi della droga e del denaro, la violenza e, prima di tutto, l’eterna lotta tra il bene e il male. Scorsese è prima di tutto una trinità: un sociologo, un etologo, un antropologo che lavorano sul campo. Uno studioso che ama carnalmente la propria materia, che si ferma a guardare e aspetta, che non spreca né sbaglia colpi. Che raccoglie, classifica ed esperisce l’oggetto dell’analisi senza ferirlo mai, senza danneggiarlo. Iperrealista, ma non solo. Onirico, a volte, ma sempre alla ricerca di quel ponte tra realtà esterna e realtà interna. Ma neanche questo basta a fornire un quadro esaustivo. Non potrebbe mai, trattandosi di una figura così importante. C’è anche molta religione, in continua presenza e in continua rielaborazione, reinterpretazione. C’è molta carne, molte viscere, ma anche molta ironia, quella di un genio della strada, di un “amante”, molto più che di un intellettuale. I tratti stilistici sono, da subito, quelli di un grande studioso di cinematecnica, come di un grandissimo sperimentatore. Inventore di una sua propria scuola di montaggio, che amalgama inconfondibilmente con un altro elemento fondamentale, che lega e racconta: la musica. Grande appassionato di rock e pop, grande collezionista di musica leggera, amante della ricerca contrappuntistica, Scorsese organizza con precisione disarmante una tra le visioni più ampie della realtà filmata.Di questa visione diamo qui un “trailer”, una panoramica che speriamo invogli il lettore a conoscere personalmente il cinema di questo grande maestro italo-americano. BIOGRAFIA: (Flushing (NY), 17 novembre 1942) Martin Marcantonio Luciano Scorsese nasce a Flushing, New York, il 17 novembre 1942 da Luciano Charles Scorsese e Caterina Cappa, a loro volta figli di due immigrati siciliani, arrivati negli States all’inizio del secolo.Quando Martin ha 4 anni gli Scorsese si trasferiscono nel Queens. La passione per il cinema lo coinvolge fin da piccolo, anche dal momento che una forma d’asma piuttosto grave lo costringe ad evitare le attività sportiva. Come in una favola, i genitori regalano a Martin una piccola cinepresa ed egli comincia a disegnare storyboard di film immaginari, per cui sogna anche cast prestigiosi.Nel 1956 entra in seminario, ma abbandona la strada della vocazione molto presto e 4 anni dopo si iscrive al corso di cinematografia della New York University, dove dirige i suoi primi cortometraggi, in 16 mm. Tra questi, “La grande rasatura”, corto simbolo per un'intera generazione di cineasti della New Hollywood e alla base di tutta la filmografia scorsesiana, per i suoi riferimenti alla vita di strada e alle radici italiane. Nel 1965, all’età di 23 anni (come Coppola al suo esordio), Scorsese ottiene un prestito dalla New York University per girare il primo lungometraggio, intitolato “Bring On the Dancing Girls”. Le riprese vengono interrotte quasi subito perché il film, come racconterà poi lo stesso regista, “non riscuoteva successo nemmeno tra i membri della troupe”. Due anni dopo, dietro consiglio del suo professore Haig Manoogian, riprende in mano il progetto, girando in 16 mm e cambiando il titolo in “I Call First”. Il film, con titolo definitivo “Who's That Knocking at My Door?” (“Chi sta bussando alla mia porta?”), esce nel 1969 (con la provvidenziale aggiunta di una sequenza erotica, stavolta dietro consiglio del produttore) e segna il lancio e l’inizio della collaborazione con l’attore Harvey Keitel, la produttrice Barbara De Fina (altra italo-americana) e quella che sarà la sua storica montatrice, Thelma Schoonmaker. Dopo aver perso la regia di “I killers della luna di miele”, passata invecea Leonard Kastle, nel 1970 Scorsese partecipa al documentario “Woodstock”, come assistente alla regia e come supervisore del montaggio. Il clip dello storico concerto rock simbolo di un’epoca diverrà a breve un cult-movie e s’inserisce in tutto quel filone di protesta che la New Hollywood ha sempre percorso: è dello stesso anno il documentario militante “Scena di strada 1970”, diretto da Scorsese e riguardante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam.Come per Coppola, il vero ingresso di Scorsese nella New Hollywood è segnato dal trasferimento New York-Los Angeles e dall’incontro con Roger Corman, imperatore dei B-Movie. Il primo lavoro realizzato da Scorsese con la American International Pictures di Corman, “America 1929 - Sterminateli senza pietà” (1972), è il primo ad essere distribuito degnamente e si avvale di due astri nascenti come Barbara Hershey e David Carradine. Ma il primo vero successo anche autoriale è datato 1973, ed è rappresentato dall’uscita nelle sale di “Mean Streets”, girato pressappoco con la stessa troupe del film precedente. È qui che compaiono per la prima volta molti dei tratti stilistici tipici della produzione del regista italo-americano: accento neorealista sulla creazione e il movimento dei personaggi, che non sono che “gente comune”, antieroi emarginati; scrupolosa sperimentazione tecnica nel campo della fotografia, dell’inserimento delle musiche. Da un punto di vista tematico è qui che affiora l’impianto ossimorico della messinscena scorsesiana: un continuo gioco di opposti tra il bene e il male. È comunque con “Mean streets” che s’inaugura una fondamentale collaborazione, quella con Robert De Niro. La leggenda vuole che qualcuno dei colleghi abbia mosso in quel periodo le prime critiche a Scorsese, che “non avrebbe saputo girare un film di donne”. Per tutta risposta egli gira “Alice non abita più qui” (1974) e la protagonista Ellen Burstyn vince il premio Oscar come migliore attrice.Con il progetto successivo Scorsese torna al documentario: “Italoamericani” (1974), da lui stesso giudicato “il suo preferito”, è un omaggio ai suoi genitori, che apre un orizzonte di incredibile importanza sulla vita degli immigrati italiani a New York, nel quartiere italiano Little Italy.È così che Scorsese torna alla sua amata New York, per cominciare a lavorare al suo capolavoro, “Taxi Driver”. La sceneggiatura di Paul Schrader e l’interpretazione di Robert De Niro guidano il film dritto alla Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1976. Dopo questi successi internazionali, la Grande Mela si merita un omaggio in piena regola: “New York, New York” (1977), un musical, in cui ancora De Niro, affiancato da Liza Minnelli, nel ruolo di protagonista. Eppure la storia della cantante e del sassofonista non ottiene il successo sperato, tanto che molti critici giudicano il film “non riuscito”. L’amore per il documentario e soprattutto per la musica riporta Scorsese sulla cresta dell’onda, con “The Last Waltz” (“L’ultimo Valzer”, 1978), una testimonianza d’autore dell'ultima strepitosa esibizione live del gruppo musicale The Band, tutta all’insegna degli “special guest”. Nel film compaiono volti celebri come Muddy Waters, Bob Dylan, Neil Young, Van Morrison e molti altri e il successo arriva, anche e soprattutto grazie ai festival e agli amanti della musica pop.Nel settembre di quell’anno Scorsese viene ricoverato in seguito a un’emorraggia interna. Si riprende grazie anche all’aiuto di De Niro, che gli propone di girare “Raging Bull” (“Toro Scatenato”), un film biografico sul pugile italo-americano Jake LaMotta. “Toro scatenato” esce nel 1980 e diviene in breve tempo un cult-movie assoluto, simbolo di tutta una cultura, di un atteggiamento, lume anche per i tecnici del cinema, con il suo bianco e nero artistico. Robert De Niro ingrassò 30 chili per interpretare l’e-pugile in declino e si sottopose a otto ore al giorno di preparazione pugilistica per le scene della gloria di Jake LaMotta, ma il tutto gli valse un meritatissimo Premio Oscar.“King of Comedy” (“Re per una notte”), ancora della “premiata ditta Scorsese-De Niro”, affiancata da un ottimo Jerry Lewis in versione drammatica, esce tre anni dopo, ma il crudele ritratto della follia di un uomo comune assetato di successo fa precipitare ancora il successo di Scorsese, più di tutti simbolo della gloria altalenante.La pellicola indipendente successiva, “After Hours” (“Fuori Orario”, 1985), di cui è protagonista un Griffin Dunne/Alice vagabondo per una strana New York, infatti, riporta Scorsese in vetta, assegnandogli la Palma d'oro e il Leone d’Argento come miglior regia rispettivamente al Festival di Cannes e alla Mostra del Cinema di Venezia del 1986.A 25 anni da “The hustler” (“Lo spaccone”, 1961), Scorsese ne gira su commissione un sequel, “The color of money” (“Il colore dei soldi”), di nuovo con Paul Newman (Premio Oscar), stavolta affiancato dal giovane rampante Tom Cruise. Due anni dopo si avvera uno dei progetti più cari al regista, un film sulla vita di Gesù. La Paramount aveva rifiutato nel 1983 in seguito alle polemiche dell’istituzione cattolica, ma la Universal, in cambio della firma su un prossimo film commerciale imposto dalla casa, accetta di produrre quello che, ispirato ai Vangeli Apocrifi, è l’adattamento di un romanzo dello scrittore greco Nikos Kazantzakis, “The last temptation of Christ” (“L’ultima tentazione di Cristo”, 1988).Protagonista Willem Dafoe, musiche di Peter Gabriel, le proteste e, addirittura, le minacce di boicottaggio furono a centinaia, per il film-scandalo che affronta il tema di un Gesù totalmente uomo, ancor prima che “figlio di Dio”. L’amicizia con Coppola li vede vicini (insieme anche al brooklyniano Woody Allen) in una trittico sulla Grande Mela, “New York Stories” (“Storie di New York”, 1989) e nella fondazione, insieme a Woody Allen, Robert Altman, Clint Eastwood, Stanley Kubrick, George Lucas, Sydney Pollack, Robert Redford e Steven Spielberg, della Film Foundation, che dal 1990 si occupa del restauro di pellicole storiche e di diritti d’autore.In quell’anno Scorsese inizia a lavorare a un altro capolavoro, il gangster-movie “Goodfellas” (“Quei bravi ragazzi”, 1990, Leone d’Argento a Venezia ‘47), che racconta la vera storia riportata nell’autobiografia del gangster Henry Hill, che co-sceneggia. Joe Pesci merita l’Oscar come miglior attore non protagonista, per il suo Tommy DeVito, killer schizofrenico. Ma per il regista ancora nessun riconoscimento dall’Academy, che sembra evitare i suoi sforzi con più di un’acrobazia. Intanto la Paramount Pictures viene a riscuotere e a Scorsese viene assegnata la regia del “commerciale” remake di “Cape Fear”, il film di J. Lee Thompson del 1962, con Gregori Peck e Robert Mitchum, stavolta sostituiti da Nick Nolte e un camaleontico e muscolosissimo Robert De Niro.Il film successivo, tratto dall'opera Premio Pulitzer della scrittrice Edith Wharton è “The age of innocence” (“L'età dell'innocenza”, 1993), che si allontana dallo stile e dall’epoca di gran parte delle pellicole scorsesiane (è un film in costume ambientato alla fine del XIX secolo), ma non dalla location, sempre newyorkese. Il cast è tra i meglio assortiti: spiccano Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer e Winona Ryder.Nel 1995, anno in cui Scorsese ottiene il Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia, esce “Casinò”, sequel ideale di “Goodfellas”, soprattutto per quanto riguarda il cast, in cui compare stavolta anche Sharon Stone, e la tematica, anche se la location si sposta a Las Vegas.Nello stesso anno Scorsese firma anche “Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano”, documentario in cui esamina criticamente l'evoluzione dell'arte cinematografica di Hollywood. Con “Kundun” (1997), dedicato all'esilio del Dalai Lama e ai suoi anni all'estero, riceve una prestigiosa onorificenza a vita dall'AFI (American Film Institute). Dopo un’autobiografia, “Scorsese secondo Scorsese”, “Il mio viaggio in Italia” (documentario) e “The neighborhood” (cortometraggio), torna dietro la macchina da presa con “Bringing out the dead” (“Al di là della vita”, 1999), un dramma, sceneggiato ancora da Paul Schrader, con Nicolas Cage nel ruolo di un paramedico sull'orlo di una crisi nervosa, che segna il ritorno di Scorsese a New York. Ancora un documentario (“Feel Like Going Home: The Blues from Africa to the New World” – “Dal Mali al Mississippi”, 2002), mentre si prepara “Gangs of New York”, un vero e proprio kolossal, girato quasi interamente agli studi di Cinecittà di Roma, con le scene di Dante Ferretti.Il film, in programma dal 1970 realizza un affresco sulla storia delle radici di New York, e degli Stati Uniti. Nel cast Leonardo DiCaprio, Daniel Day-Lewis e Cameron Diaz. Nel 2004 è la volta di “The Aviator” (2005), sulla vita della leggenda di Hollywood Howard Hughes, film voluto da Leonardo DiCaprio, che vince il Golden Globe come miglior attore. L’anno dopo esce un altro documentario musicale firmato Scorsese, “No direction home”, su Bob Dylan.“The Departed”, uscito nell’autunno 2006, ancora con DiCaprio (segnalatogli inizialmente da Robert De Niro, con cui DiCaprio aveva fatto coppia in “Voglia di ricominciare”, 1993), gli vale finalmente l’Oscar come miglior regista e per il miglior film. Più che altro un premio alla carriera.Dopo aver realizzato “Shine a light” (2007), un documentario sui Rolling Stones. I nuovi progetti, per ora solo annunciati, includono “Frankie Machine”, dal romanzo “The winter of Frankie Machine” di Don Wislow, che vede il ritorno di Robert De Niro, un film sull’ascesa del 26esimo presidente Usa, “The rising of Theodore Roosevelt” (Leonardo DiCaprio) e forse l’ennesimo documentario musicale, questa volta sul più oscuro dei 4 Beatles, George Harrison. FILMOGRAFIA CRITICA:
“The Big Shave” (1967) (cortometraggio).La storia di un ragazzo che si rade scrupolosamente e, svista dopo svista, finisce invece per tagliarsi la gola.Nonostante si sia scelto qui di non elencare i numerosi cortometraggi (più per mancanza di notizie che per importanza) è doveroso cominciare la filmografia con quello che è stato per Scorsese il vero passaporto per il cinema. La scena, della durata di 5 minuti netti, racchiude già, nel montaggio vorticoso e nell’esplosione del sangue, molti dei segnalibri del prossimo Scorsese. Da aggiungere sono un richiamo generico alla “scena dell’occhio tagliato” di “Un chien andalou” di Luis Buñuel e, soprattutto, la scritta finale “Viet 67”, inequivocabile rimando alla guerra del Vietnam, che ci svela tutto il senso metaforico del corto: la condizione dell’America e dell’uomo americano medio, lo stesso il cui dramma vedremo raccontato in tutta la successiva produzione scorsesiana. “Chi sta bussando alla mia porta?” (“Who's That Knocking at My Door”) (1969) Con Harvey Keitel, Zina Bethune, Lennard Kuras.Gli immigrati italiani J.R., Joey e Sally trascorrono le giornate nella Little Italy di fine anni Sessanta, impegnati “a perdere le ore”, tra l’educazione sentimentale e quella sessuale, alla ricerca di un’identità in un nuovo paese, di cui cominciano ad essere figli.Il primo lungometraggio di Scorsese è, si vede, ancora acerbo, soprattutto nel modo brusco e un po’ disattento con cui la narrazione abbandona talvolta i personaggi per stendersi sulla strada e sulle “mille situazioni”, che saranno il pane di Scorsese negli anni a venire. È il primo film di Harvey Keitel, divenuto in breve tempo una stella del cinema underground, quello, come questo primo Scorsese, girato con budget entro i 40.000 dollari di allora. “America 1929 - Sterminateli senza pietà” (“Boxcar Bertha”) (1972) Con Barbara Hershey, John Carradine, David Carradine.La storia di Boxcar Berta Thompson, come affresco dell’America della Depressione. Una sorta di nuovo Far West che riporta tutti nei bassifondi, tra prostitute, bari, sindacalisti, padroni repressivi, assassini, cacciatori di taglie, barboni e rapinatori.Alla sua seconda prova di regia, il trentenne Scorsese colora tutto della sua arte del coro, in funzione di una protagonista (Hershey) magistrale. Fotografia impeccabile e qualche scena da “annales”. Mean Streets (1973) Con Robert Carradine, Harvey Keitel, Robert De Niro, David Carradine.Little Italy, New York. La storia dello psicolabile Charlie, diviso tra l’amore per la cugina epilettica, la brutta compagnia dello squilibrato Johnnie Boy e la tentazione della scalata sociale grazie all’aiuto di uno zio mafioso.Scorsese porta la cinepresa in giro per la sua Little Italy, “con la precisione di chi la conosce come le proprie tasche”. Una sorta di lezione di antropologia sul campo, estremamente importante, come al solito quando si parla di Scorsese, se vista anche da un punto di vista cinefilo: molti sono i richiami alla storia del cinema, alla Nouvelle Vague francese, ma soprattutto al Neorealismo italiano. I protagonisti sono i reietti della società, Charlie (Keitel) gira vorticosamente, allo sbando in una sorta di bolgia dantesca (il sottotitolo italiano è “Domenica in chiesa, lunedì all’inferno”). La fotografia degli esterni notturni affonda in una sorta di stroboscopia da discoteca, su cui fluisce una colonna sonora memorabile (Eric Clapton, Rolling Stones, Renato Carosone), segno che la musica continua farà la storia dei film di Scorsese. Certe scene, quanto a movimenti di macchina, ricordano fortemente le “fughe” alla Godard, autore cui Scorsese deve molto, soprattutto nel suo primo periodo newyorkese.Si tratta del primo film della “premiata ditta Scorsese-De Niro”, un sodalizio, da qui in poi, difficile da sciogliere. “Alice non abita più qui” (“Alice Doesn't Live Here Anymore”) (1975) Con Ellen Burstyn, Kris Kristofferson, Laura Dern, Harvey Keitel, Jodie Foster.Socorro, New Mexico. Alice, che, nell’infanzia a Monterey (California), sognava di diventare una grande cantante, si ritrova sposata a un camionista manesco. Quando il burbero marito muore in uno scontro, Alice decide di riprendere in mano il proprio sogno e compie un lungo viaggio, con figlio dodicenne al seguito, per tornare a casa, guadagnandosi da vivere solo con il canto. Dopo varie vicissitudini, finirà per doversi accontentare di un posto da cameriera, ma con un bel cliente in cui si può intravedere una nuova, semplice, vita.Un aneddoto vuole che, dopo film crudi come “Boxcar Bertha” e “Mean Streets”, qualcuno “del mestiere” abbia provocato Scorsese, sostenendo che non sarebbe stato capace di realizzare un “film di donne”. Eccolo pronto, invece.“Difficile capire le belle storie di donne, per uno spettatore uomo. C’è una «differenza» che convive con la vita delle donne che è molto difficile rapire e, per noi uomini, molto difficile capire. C’è un universo di esperienze, di emozioni, di culture, di linguaggi, di sentimenti che costituiscono un territorio di racconto pericoloso” commenta Veltroni in una recensione. Qui c’è molta donna e c’è molto viaggio. C’è molta provincia americana. Scorsese abbandona le “avenues” e le “mean streets” di New York City, per avventurarsi in tutt’altra costa, tutt’altra America, tutt’altra realtà. Viaggio di formazione di una donna adulta che vuole crescere nuovamente, che vuole percorrere il “binario parallelo”. I proverbiali riferimenti cinefili scorsesiani qui vanno ricondotti all’immaginario anni ’50, agli anni d’oro della tv, agli affreschi extraurbani pieni di Judy Garland sullo sfondo e a un certo gusto per l’happy end con abbraccio alla Frank Capra. Forse proprio nel personaggio un po’ abusato del semplice cowboy (Kristofferson) che ai sogni di successo sostituisce ammiccanti e sincere siepi-tendine-palizzata dell’ “american way of life” sta la possibile debolezza del film. Sempre che non vi si voglia trovare dentro un po’ di sana ironia. E intanto Ellen Burstyn merita il premio Oscar. Taxi Driver (1976) Con Robert De Niro, Cybill Shepherd, Jodie Foster, Harvey Keitel.New York. Travis Bickle, veterano della guerra in Vietnam, torna a casa e tenta di reinserirsi nella società, che sembra ormai chiusa a riccio. Insonne, decide d’impegnare le notti facendo il tassista. Conosce una ragazza e se ne innamora, ma le cose naufragano presto: sbagliata lei ma completamente disadattato, straniato lui. Travis prende a scendere sempre di più nel baratro della solitudine, fino a risvegliare dentro di sé istinti primordiali e violenti, che porteranno a un sanguinoso epilogo.Un monolito della storia del cinema. Compendio di quasi tutto ciò che rende perfetto un film, dalla sceneggiatura alla regia, dalla fotografia alla recitazione. Straordinario come questi non debbano preoccuparsi di essere giudizi personali, perché ogni eccellenza è obiettiva. Il soggetto e la sceneggiatura di Paul Schrader scavano a fondo descrivendo un climax di assoluta precisione: il fantasma del Vietnam è quasi solo accennato, si riflette molto più nell’atmosfera che nel personaggio, che sembra – giustamente – non volerne sapere niente. Eppure sembra di camminare tra le rovine di una coscienza, quella comune e sociale americana, che da quella guerra insensata forse non si riprenderà mai. Di certo non si riprende Travis (De Niro), magistrale nel trasmettere il totale straniamento di qualcuno che non si sente a posto, non più. Quella dell’ossessione per Betsy (Sheperd) è una metafora perfetta della frenesia di qualcuno che non sa dove sia l’uscita. Travis vorrebbe incolpare qualcuno e comincia da se stesso, gettandosi a capofitto in una storia impossibile, nella quale entra impacciato come un bimbo, suscitando pena. Il dramma è dietro l’angolo, tenuto sapientemente a bada da una sceneggiatura di silenzi e di grande libertà (ispirata forse a “An assassin’s diary” di Arthur Bremer). Di questo, una dimostrazione su tutte: la scena più famosa del film, quella in cui Travis “fa le prove” davanti allo specchio non era prevista dallo script di Schrader, che riportava solo “Travis si guarda in uno specchio”. Fu De Niro ad aggiungere le battute, divenute celebri “’r you talkin’ to me?” etc. Incredibile come dall’inizio, nonostante la narrazione sia sempre educata e fumosa (come la New York che vediamo scorrere oltre il parabrezza bagnato del taxi), si avverta, nel film, il presagio di quello che accadrà. La soluzione di tanta violenza subita (quella in Vietnam prima, in città e nella solitudine dopo) non può che portare Travis verso altra violenza, questa volta nell’utopia cosciente che non ci sia nessuno da vendicare realmente. Eppure ormai il meccanismo è innestato, come ci mostra chiaramente il continuo tornare della macchina da presa sulla pistola, metafora della meccanica semplice, perfetta e terribile e rimando militaresco. Non che etica e morale smettano di esistere, ma Travis trova un capro espiatorio che lo soddisfa, una causa per cui battersi, stavolta più “giusta” di quella della guerra in sud-est asiatico: la vendetta, in difesa di una prostituta dodicenne (Foster) caduta nelle grinfie di una banda di ruffiani (capeggiata da Sport/Keitel).Rosso sangue è il colore di Scorsese (anche se qui è desaturato in pellicola per evitare censure), ma bianco quello del cervello di Travis, che resta comunque, a suo modo, impunito, prima da se stesso (il tentato suicidio dopo la carneficina finale fallisce per mancanza di munizioni) e poi dalla società, che lo riabilita facendone quasi un martire. È stata una rivincita? O piuttosto un fallimento totale?Il film conquistò il favore unanime di critica e pubblica, 4 nomination all’Oscar (la statuetta fu soffiata a De Niro dal Peter Finch di “Quinto potere” e a Scorsese dal John Avildsen di “Rocky”) e, soprattutto, la Palma d’Oro a Cannes. “New York, New York” (1977) Con Liza Minnelli, Robert De Niro, Lionel Stander.New York, 1945. Nella notte della resa del Giappone s’incontrano un sassofonista e una cantante emergente. Seguono sette anni di classica storia d’amore, al ritmo di un vecchio jazz che sta diventando nuovo, di litigi e di orgoglio di due star in ascesa. Con epilogo amaro.Abbandonati i toni aspri e documentaristici di “Mean streets” e “Taxi driver”, Scorsese si immerge nella nostalgia del tempo che fu. Per un amante del cinema e della musica dev’essere stato un piacere. I “fils rouges” sono tre. La musica, innanzitutto: gli anni del secondo Dopoguerra rappresentano il punto di passaggio dalle “big band” al “bebop”, due generi con cui gli States fecero scuola a lungo. In questo film ci si trova “in punta della baia”, ascoltando entrambi i venti: Jimmy (De Niro) è uno dei primi sassofonisti solisti, simbolo del “bebop”, mentre Frantine (Minnelli) è la front-lady delle grandi orchestre, che poi svetterà in classifica anche lei come solista. Una buona occasione, quindi, per riascoltare classici alla Judy Garland. Ed è proprio la Garland (madre biologica di Liza Minnelli e secondo “fil rouge”) a offrire forse lo spunto di sceneggiatura, con la sua vita tra le stelle del disco e della celluloide. Minnelli ce la mette tutta per ricostruire il sogno della madre e l’immaginario di un’America pronta a tornare in pista dopo l’ombra della Guerra. Quest’ultima, come al solito in Scorsese, è una cornice. I personaggi si avventurano nel diradarsi delle nebbie e l’effetto è tutt’altro che patinato: un successo, comunque.L’ultimo segnalibro sempre presente è, ovviamente, New York. Questa volta Scorsese si cimenta sulla Grande Mela dei suoi genitori e si spinge dai “music hall” alle cantine di Harlem, al suono del sax di Boyle. “L'ultimo valzer” (“The Last Waltz”) (1976) (documentario) con The Band, Bob Dylan, Neil Young, Eric Clapton, Joni Mitchell, Ringo Starr, Neil Diamond, Van Morrison.L’ultimo, glorioso concerto di The Band (Richard Manuel, Garth Hudson, Levon Helm, Robbie Robertson e Rick Danko), in cui intervennero alcune tra le star più amate della musica mondiale, da Bob Dylan a Van Morrison, passando per Neil Young e Joni Mitchell. Il “dietro le quinte” disordinato ed estremamente settantottino e le riprese di palco che nulla hanno da invidiare al “Nashville” di Robert Altman rappresentano un documento unico nella storia della musica folk e pop. “Toro scatenato” (“Raging Bull”) (1980) Con Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty.New York, anni 40-50. La storia del pugile Jake LaMotta, campione dei pesi medi soprannominato “il toro del Bronx”, per la sua fama di picchiatore (anche fuori dal ring) e per la sua capacità di incassare in combattimento. Dalla formazione alle liti con il fratello/manager, dall’amore (violento anch’esso) all’orgoglio e alla genialità di un uomo semplice che cerca, dove possibile, una sua individualità e una separazione dal mito. Un affresco del pugilato come business, ma anche come carnaio umano generato da una società avida, controllata da aguzzini e approfittatori. Se Scorsese ci mette del suo nel fotografare le sue strade neorealiste con una precisione forse irraggiunta fino ad allora, LaMotta, che collaborò alla sceneggiatura, si trovò d’accordo con Paul Schrader e Mardik Martin nel voler dare di sé un’immagine aperta a triangolo: dura e spietata, fortemente autocritica, ma anche permeabile alla comprensione umana, alla compassione, le volte che a prevalere non è quella sardonica ironia (e saggezza più che mai popolare) di cui De Niro si fa interprete impeccabile. Quel bianco e nero di Michael Chapman, poi, “di una ricchezza cromatica che il colore avrebbe difficilmente raggiunto” (Morandini), rimarrà storico. E dal 1980 al Neorealismo il passo è quasi inesistente.Pare che la promessa di De Niro a Scorsese di fare un film su Jake LaMotta, progetto dai due corteggiato a lungo, abbia rimesso in sesto il regista, ricoverato in seguito a un’emorragia interna. Il risultato fu un Oscar a De Niro e uno alla Schoonmaker montatrice. Ma a Scorsese, come al solito, solo la nomination. "Re per una notte" ("The King of Comedy") (1983) Con Robert De Niro, Tony Randall, Jerry Lewis.Accanito fan del comico televisivo Jerry Langford (Lewis), Rupert Pupkin, aspirante commediante, lo tormenta in cerca di un’audizione. Ai reiterati rifiuti Pupkin lo sequestrerà con l’aiuto di una complice, chiedendo in riscatto lo spazio di uno sketch nello show di Langford, finendo per avere successo.Scorsese punta alla denuncia dei media, con un De Niro fortemente sopra le righe e un Lewis/simil-Baudo, malinconico nel privato. La trovata del successo di Pupkin cui, dopo tre anni di carcere per sequestro, viene addirittura dedicato un film (proprio quello che lo spettatore sta finendo di vedere) non basta a salvare Scorsese dal suo primo vero insuccesso al botteghino e sulla carta stampata. "Fuori orario" ("After Hours") (1985) Con Rosanna Arquette, Verna Bloom, Griffin Dunne.New York. Paul Hackett (Dunne), un comune programmatore di computer, durante un panino in birreria conosce un’intrigante donna (Acquette) che gli consegna indirizzo e numero di telefono. A fine serata decide di raggiungerla, ma si perde nello sconosciuto quartiere di Soho, tra incontri e situazioni al limite del paradossale.Ancora New York. Eppure mai la stessa. Mai così viva, mai così insidiosa, mai così tentacolare. Dopo esser stato un “lupo mannaro americano a Londra”, Dunne è un perfetto “sprovveduto” in questa giungla. E questo deve essere.Stavolta il film non ha, forse, davvero nessuna pretesa di dare grandi o meno grandi messaggi sociologici, cosa che, tutto sommato, a Scorsese non manca quasi mai. Qui si tratta di un totale “divertissement”. Il programmatore Paul Hackett viene scaraventato da un luogo assurdo all’altro, da un evento fortuito a una pista da seguire, come fosse racchiuso in un’enorme scatola che Scorsese si diverte a ribaltare continuamente, ridendo del proprio gioco (e noi con lui).Non c’è niente di eccessivo, niente di chiaro: non c’è da piangere, non c’è da ridere, non c’è da riflettere o ragionare (c’è da seguire, al limite, i ragionamenti di Hackett). C’è da godersi tutti i modi in cui si muove, scalcia e si dimena la fantomatica “legge del caso”. C’è chi di questa regola ne ha fatto una religione, a cominciare dal romanziere Paul Auster. John Landis (“Un lupo mannaro americano a Londra”) fa uscire nello stesso anno “Tutto in una notte”, quasi un “remake coevo”. Più che alla sua solita New York, stavolta sfrondata, come detto, di molte delle pretese di contenitore di natura antropologica, la strizzata d’occhio va alla quella di “The Warriors” di Walter Hill, la New York “con le zanne sguainate”, di cui qui torna il tema del “quartiere sconosciuto”. Lì era la fuga dal Bronx a Coney Island, qui il vagabondaggio (suo malgrado) di una scorsesiana “persona comune” alle prese con persone che tutto sono tranne che comuni.Eppure, se una micro-morale c’è, è qui: il quartiere di Soho, che fagocita il protagonista, lo mette a confronto con una realtà, quella della vita notturna di sbandati e, tutto sommato, gente libera, che in qualche modo non gli appartiene. Hackett continua a difendersi dicendo “sono solo un programmatore” e, a sentire il film, questa sembra essere un’aggravante, più che un’attenuante. Il caso, sottoforma di eventi fortuiti, incontri paradossali e ricomparsa ciclica di persone e oggetti (la banconota da 20 dollari persa all’inizio del film), sale quasi sul trono di una “volontà di massa”, in nome della quale Hackett viene “ripudiato” dal popolo della notte, in una danza onirica kafkiana, un delirio proprio, forse, di un uomo a cui non basta più la “normalità” accordata dalla società con una pirandelliana “patente di persona comune” rappresentata dal suo mestiere di anonimo programmatore. Un uomo che vorrebbe trasgredire, ma a cui questo non è permesso.“Il colore dei soldi” (“The Color of Money”) (1986) Con Paul Newman, Tom Cruise, Mary Elizabeth Mastrantonio.Il veterano del biliardo Eddie Felson (Newman) vede giocare il giovane Vince Lauria e decide di diventarne il mentore e il protettore. Insegnargli i trucchi del famigerato “9 ball classic” e, soprattutto, quelli su “come inventarsi la fortuna” nelle scommesse ad esso relative mette in piedi un curioso rapporto con Vince, che giocherebbe invece anche per il solo gusto di giocare. Durante un viaggio verso il torneo di Atlantic City, i due finiranno per scambiarsi le vedute.Remake de “lo spaccone”, a venticinque anni di distanza. Una scelta commerciale, di certo, la prima affidata a Scorsese, che accettò di buon grado, in cerca di ulteriore visibilità. Nonostante l’impianto resti quello, appunto, del remake, con conseguenti scelte di vertice che influenzano spunti drammaturgici potenzialmente più interessanti, resta un’ottima prova degli attori: Newman (che conquistò l’Oscar) si comporta da mostro sacro, ma senza gigioneggiare, accelerando, anzi, la marcia non appena il giovane Cruise si mostra all’altezza. “L'ultima tentazione di Cristo” (“The Last Temptation of Christ”) (1988) Con Willem Dafoe, Barbara Hershey, Harvey Keitel.La storia di Gesù di Nazareth (Dafoe), dalla scoperta di essere figlio di Dio, ai rapporti con gli apostoli (in particolare Giuda/Keitel e Maria Maddalena/Hershey), passando per il rifiuto della propria “missione”, fino, addirittura, a un delirio finale in cui s’immagina l’epilogo alternativo alla crocifissione. Ispirandosi liberamente qua e là ai Vangeli Apocrifi, ma di più al romanzo omonimo di Nikos Kazantzakis, Scorsese pilota un’analisi del tutto personale su quello che è forse il “personaggio” per antonomasia. La tematica più pericolosa, l’interpretazione più rischiosa, senza mai scendere a compromessi. Nel 1983 la Paramount rifiutò di produrre il film in seguito a certe polemiche preventive avanzate dalla Chiesa. La Universal promette a Scorsese l’uscita del film a costo di un altro film (commerciale, invece) con la sua firma. I mezzi Universal vengono usati a pieno, tutti al servizio di una visionarietà che unisce l’immaginario semi-pagano del cristianesimo di piccole comunità (come quella della scorsesiana Little Italy) all’impianto visivo preso dal passato (il musical “Jesus Christ Superstar”, e non è infatti a caso la scelta di Peter Gabriel per le musiche e di David Bowie per Pilato) e che volgeva prima e volge ancor più adesso verso un avvenirismo spinto ma mai gratuito, se si perdonano certe grandi simbologie, come quella, famosa dagli Apocrifi, del leone all’uscita dal deserto.Grande polemica alla presentazione alla Mostra di Venezia, in gran parte a causa della scelta dell’epilogo alternativo (anche qui ispirato agli Apocrifi), in cui Gesù non muore sulla croce, ma invecchia con una famiglia accanto, ormai solo uomo e non più divinità. L’altro “capo d’accusa” fu, prevedibilmente, l’ambiguo rapporto con Giuda, a volte additante qualche svisata omosessuale. Il tema del “Dio suo malgrado” è sempre scottante e Scorsese riesce a mettere in questa pellicola, spesso intrisa, come si è detto di forte simbologia e onirismo, una componente umana inaudita, trasmessa a tutto tondo da un cast in stato di grazia, da Willlem Dafoe, sofferente, costernato e finalmente quasi-brutto (ecco come Scorsese evita il confronto con Rossellini, Zeffirelli e Pasolini), a Harvey Keitel, Giuda rozzo, istintivo, violento, vero, e a Barbara Hershey, la Maddalena divenuta prositituta proprio a causa dell’amore negatole da Gesù. Amore. Questa sì, è una parola fondamentale. Ma mai come quella di “uomo”, che amore e morte ce l’ha nel sangue, che sia sangue, appunto, umano, o invece estremamente “blu” (quello divino). “Quei bravi ragazzi” (“Goodfellas”) (1990) Con Ray Liotta, Robert De Niro, Joe Pesci, Paul Sorvino, Lorraine Bracco.Brooklyn. La vera storia del pentito italo-irlandese Henry Hill (Liotta), raccontata da lui medesimo, dall’avvicinamento alla Mafia, dai primi spacci ai colpi grossi, dagli omicidi alle faide. Una sorta di “Padrino” grottesco, vissuto e raccontato in prima persona, viaggiando cronologicamente e, in qualche modo, sentimentalmente attraverso un’epoca intera. Il veicolo è la mente pura e affilata di un ragazzo di strada orgoglioso di diventare gangster. La bella vita, le donne, l’immancabile droga e, più che questioni d’onore, questioni di famiglia e di amicizia, in una lunga sinfonia che ha sempre meno della saga e sempre più del romanzo di formazione.Il gusto documentaristico di Scorsese affiora e affonda, come un monito che rimbalza di scena in scena, ma a guidare c’è più la musica, la musica-epoca, la “colonna sonora”, nel vero senso del termine; ci sono gli angoli di una New York veloce, feroce, ma tutto sommato amichevole, perché quella raccontata è completamente colonizzata dai “bravi ragazzi”. Questo è il soprannome con cui i gangster si chiamano tra loro, “ragazzi per bene”, gente di cui ti puoi fidare. E quest’affermazione non è mai stata così vera. Quello che, infatti, traspare nei rapporti tra i personaggi, è proprio fiducia, amicizia, agilità di dinamiche interne, relax, anche nel rapporto con le autorità, che, dove non sono corrotte, sono impaurite.Il pericolo che la malavita appaia giustificata, addirittura ammirata è comunque scongiurato, se due decenni di musica accompagnano e sovrastano i rumori di pugni, spari, calci ed esplosioni. Scorsese sembra sorridere a ogni inquadratura, da dietro alla macchina da presa. Forse perché è finalmente riuscito ad avere carta bianca sul film che desiderava fare da tempo. Film che non è un gangster-movie, è pura poesia della visione collettiva, pura amalgama corale, paradigmatica di una società, quella americana, ma quella umana in genere, scelta da sempre dallo Scorsese/etologo come specie preferita.Qui la tesi regge sempre, e non solo perché il materiale (reale) è raccontato da chi tutto questo l’ha vissuto (che si tratti Henry Hill o di Scorsese stesso), ma perché c’è un gusto dissacrante e rigoroso che, per una volta, della satira sociale se ne infischia, optando per un’analisi sul campo effettuata con i migliori strumenti d’osservazione e, soprattutto, di trasmissione dei risultati: luce, musica e materiale umano.Il cast è un altro capolavoro: Liotta supremo nel tenere le fila, tra il tutto-simpatico e l’incredibilmente-odioso; De Niro gangster veterano, che, in quanto anche lui irlandese d’origine, condivide con Liotta/Hill l’impossibilità di salire a vertici riservati agli italiani puri (i “mangiaspaghetti” d.o.c.) e che, sfruttando questa particolarità, trova l’angolo perfetto del personaggio, paterno e mai troppo ambizioso; Pesci (premio Oscar) in un Tommy “Mangiaspaghetti” DeVito, psicolabile, avido, eccessivo e pronto, dall’inizio, per la faida, applicata e subita.Resta alla fine tutto un vivace sapore di videoclip, quando si è assistito a ben di più. E quel che resta resta a lungo. Pietra miliare. “Cape Fear - Il promontorio della paura” (“Cape Fear”) (1991) Con Robert De Niro, Nick Nolte, Jessica Lange, Juliette Lewis.Dopo 14 anni di carcere, lo psicopatico Max Cady (De Niro) esce e terrorizza l’avvocato Sam Bowden (Nick Nolte), che non aveva saputo difenderlo. Si arriverà all’epico scontro finale.La Universal riscuote il pegno e Scorsese paga, senza sbagliare un colpo. Il suo primo (e forse unico) film di genere è un altro remake, questa volta dell’omonimo di trent’anni prima con Mitchum e Peck. La macchina thriller, azionata principalmente da Hitchcock anche nel montaggio e nei piani sequenza funziona a pieno regime e senza intoppi, grazie alle musiche di Elmer Bernstein e alla memorabile interpretazione dei protagonisti. De Niro esagera e Nolte argina, in un equilibrio quasi perfetto. Juliette Lewis (premiata dalla KFCC), è perfetta nel suo essere lolita suo malgrado e accordando la sua smorfiosità a quella di De Niro, in una metafora sessuale continua: come fare sesso a parole, una per desiderio di libertà e per fascino subito, l’altro per vendetta lucida ancor più che per smania psicotica. Eppure il tutto, in una parabola di giustizia con risvolti biblici (quelli ossessivi di Cady, come quelli canonici americani), raggiunge punte di noir rare per il periodo e genera quadri filmici da studiare e ricopiare a tavolino. E pensare che doveva essere un pegno reso per le “tentazioni concesse a Cristo”. “L'età dell'innocenza” (“The Age of Innocence”) (1993) Con Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder.New York, 1870. Newland Archer (Day-Lewis), un giovane, ricco ed elegante avvocato s’innamora, corrisposto, di Ellen Olenska (Pfeiffer), bella, misteriosa ed esotica (di ritorno dall’Europa dell’Est) contessa cugina della sua futura sposa May (Ryder). Rinuncerà al grande amore e alla grande passione per sottostare alle leggi non scritte dell’aristocrazia newyorkese, allora alla disperata difesa di un’identità in via d’estinzione, e affogare in un matrimonio formale e grigio. A una prima occhiata un’altra fuga obbligata di quello che tutti, almeno fino ad allora, credevano essere il regista della violenza iperrealista. Invece niente di incoerente. Scorsese riprende in mano il romanzo Premio Pulitzer di Edith Wharton, filmato già nel ’24 e nel ’34 e ne fa una trasposizione di temi cari in un’ambientazione ancora non contaminata dalla sua analisi sociale. Il film, raccontato da una voce off (di Joanne Woodward in originale e di Maria Pia Di Meo nel doppiaggio italiano), contrappone alla messinscena impeccabile (scenografie di Dante Ferretti e costumi da Oscar di Gabriella Pescucci), che sfiora il viscontismo e l’ivorismo, un diffuso e amaro senso di decadenza che pervade la “società dei nasi all’insù”, facendo storcere, invece, il naso dello spettatore. Da ricordare i lunghi piani sequenza nelle prospettive e nelle fughe dei corridoi, nelle sale da ballo, in giro per i palchi dell’opera, mentre le frequenti inquadrature (mute, piuttosto raccontate da musica e voce off) di gente che sussurra e trama ci affondano l’occhio nell’oculare di un binocolo, in un gioco voyeristico di cui siamo consapevoli solo alla fine. Quel senso di decadenza è ovunque, in giro per ogni stanza, montante verso ogni soffitto affrescato, nascosto da ogni tenda ricamata, mentre le prime grandi famiglie finiscono sul lastrico, gli altarini portati alla luce sono troppo scandalosi da sostenere o da accettare come “normali” o. meglio, conformi a una “nuova normalità”, e mentre l’occhio dell’aristocrazia americana, nativa da poco, ancora inglese fin dentro la tazza da tè, si affaccia paradossalmente già alla ricerca di una nuova colonia, con sogni orientali e racconti di viaggi che ristorano poco.Archer conosce la contessa Olenska a un soffio dalle nozze, la passione sboccia, le dichiarazioni fioccano. Ma la società non capirebbe e, soprattutto a lui, manca il coraggio. Il matrimonio con May (una Winona Ryder dal candore totale e totalmente odioso) s’inaugura con il tradimento e il sotterfugio e si snoda al ritmo lento dei riti che invecchiano e a quello pesante di un rimorso profondo, tanto da portare Archer a desiderare di restare vedovo, per riparare ai propri errori. Ma quando May muore davvero è troppo tardi. Il coraggio è mancato, ha vinto il conformismo. Archer non è un antieroe fallito, non è proprio un eroe. Come in fondo accade sempre con Scorsese, i protagonisti sono dei deboli, indeboliti dalla società, è vero, e qui sta il nodo centrale del messaggio di questo film, ma comunque deboli. Incapaci di ribellarsi. L’epilogo è tra i più amari che la storia ricordi: gli anni passano, i figli cresciuti, gli ideali invecchiati e con loro Archer e Olenska. Potrebbero rincontrarsi, per tentare insieme di farsi una ragione di una vita rovinata. Ma Archer decide di no. Un’ultima stoccata, la spina di un amore segreto che rimarrà segreto per sempre. Il rimpianto non basterà, soprattutto quando quei valori in nome dei quali Archer ha rinunciato alla felicità si sono estinti lentamente. Così l’Archer anziano si allontana con calma, appoggiato al bastone, attraversando una strada in cui automobili hanno sostituito le carrozze, componendo addirittura un sorriso.Che c’è di più amaro di questo? Casinò (1995) Con James Woods, Sharon Stone, Robert De Niro, Joe Pesci.Las Vegas, 1973. Sam “Ace” Rothstein (De Niro), ex-allibratore, viene messo da una potente famiglia mafiosa a capo del grande casinò Tangiers, le cui regole, tra grandi avidità, veloce passaggio di denaro e approfittatori pronti dietro l’angolo, Sam cerca di far rispettare a suon di violenza e minacce. A tradirlo sarà l’amico Nicky Santoro (Pesci), mafioso drogato e arrivista, e dalla moglie Ginger (Stone), furba, avida e autodistruttrice.Scorsese farebbe ormai questi film anche ad occhi chiusi. Ma lui gli occhi non li chiude mai, figuriamoci quando poi gli si dà la possibilità di fondere melodramma semi-shakesperariano a gangster-movie, il tutto vorticosamente filmato nella città-vortice per eccellenza, Las Vegas. Luci, musiche, cast, tutto scorsesiano fino all’osso. Tutto impeccabile, se si riesce a stare al gioco, quello della strizzata l’occhio a personaggi quasi specchio di altri passati (Pesci e De Niro in “Goodfellas”), con la differenza fondamentale di un po’ meno di ironia. La figura della “femme fatale”, a Stone calza a pennello e qui regge il confronto con i partner (tra cui forse spicca James Woods per il suo eccentrico Lester Diamone). Una Lady Macbeth al contrario, che sgretola il mondo del proprio avido consorte quasi per puro gusto (anche fosse inconscio) sadico incline alla spettacolarizzazione di una decadenza annunciata. “Kundun” (1997) Con Tenzin Thuthob Tsarong, Sonam Phuntsok, Tenzin Lodoe.Tibet, 1937. In una famiglia di contadini viene trovato il Kundun, la reincarnazione del Buddha della Compassione, successore del Dalai Lama. Infanzia e investitura. Invasione cinese nel 1950, colloquio con Mao Tse Tung tre anni dopo, fuga in India dopo la rivolta del ’59. A sessant’anni dalla nomina del tredicesimo Dalai Lama, Scorsese desidera dare la sua versione, se non altro delle immagini. Film scritto dalla buddista Melissa Mathison, filmato in location marocchine. Critica spaccata in due, soprattutto riguardo alla ricostruzione storica. Ma nemmeno qui si può parlare di scivolone, perché la compattezza visiva è una scuola di formalismo da un lato e uno specchio lucido di sapienza interpretativa applicata alla narrazione tra storia e romanzo dall’altro. Una “via mediana” più eccentrica, forse, di quella trovata da Bertolucci ne “L’ultimo imperatore”, meno canonica, di maniera comunque, e maniera simile, eppure di materia non comune a nient’altro. Il recentissimo “La città proibita” di Zhang Yimou è in qualche modo figlio orientale (e quindi più che legittimo) di questo stesso progetto, che all’opinione storica, rischiosamente politica, preferisce la composizione rigorosa di una forma-cinema impeccabile. “Al di là della vita” (“Bringing Out the Dead”) (2000) Con John Goodman, Nicolas Cage, Patricia Arquette.New York. I viaggi allucinati di un ambulanza e di un paramedico (Cage), in crisi esistenziale perché “non riesce più a salvare nessuno”, tra situazioni oniriche, svolte morali e religiose e una cruda realtà che da fuori si rispecchia dentro.“Scorsese sta invecchiando”, dice qualcuno. Le polemiche che già avevano afflitto lo sventurato e agiografico “Kundun” rimbalzano su questo tentativo di “tornare per la strada”. La scelta non cade più sulla coralità, ma sul protagonista singolo e assoluto, al punto che ogni immagine mostrata dal film potrebbe non essere che un’emanazione di un cervello in crisi. Cage è tormentato dall’idea filosofica dell’utilità pratica umana, idea che diverrà mistica quando al termine “utilità” si sostituirà “salvezza”. La crisi è di coscienza, ma non solo coscienza privata, anche sociale, in una discoteca rapsodica di luci fotografate come quelle dei documentari di corsia. Qualcosa di corale, però, c’è, ed è la legione di demoni che affolla l’animo del protagonista, in un viaggio kafkiano nella notte dell’inevitabilità. Tutto accade malgrado tutto. E il protagonista sta a guardare, tanto da cominciare a parlare di se stesso non come di un “salvatore” ma come di un “testimone”. Il titolo originale, “Portando fuori il morto” dice tutto, sul mestiere reale come sulla natura maieutica di una ricerca profonda, che affoga, alla fin fine, negli abissi di individualità (quelle dei personaggi, mai così anonimi, mai così neutri nel loro parossismo) negate, mai rivelate. Forse proprio perché giudicate impossibili da rivendicare come tali.Scorsese non arretra mai. E dove la sceneggiatura di Paul Schrader pecca di moralismo il grande regista, in questo sforzo, concediamolo, sindacabile, tenta di riconquistare i binari giusti a colpi di inventiva registica, cosa che non è mai mancata al genio. “Gangs of New York” (2002) Con Leonardo DiCaprio, Daniel Day-Lewis, Liam Neeson, Cameron Diaz.New York, 1861. L’immigrato irlandese Amsterdam Vallon esce dal riformatorio e torna al malfamato quartiere di Five Points, per uccidere Bill “Il macellaio”, assassino del padre. La faccenda si complica quando “Il macellaio” comincia a nutrire stima per Amsterdam (ignorandone la vera identità) e ad affidargli incarichi nella sua gang. Intanto si susseguono le rivolte contro la leva obbligatoria per la Guerra di Secessione. Amsterdam mette insieme una banda di irlandesi per compiere la propria vendetta ai danni dei “Nativi”, che si consuma in un’ennesima carneficina nella piazza dei Five Points, prima che la polizia reprima le rivolte a suon di cannonate.Scorsese torna nei bassifondi della criminalità, questa volta per raccontare, forse addirittura spiegare la nascita dei moderni gangster. Molti dei personaggi sono liberamente tratti dal saggio “The gangs of New York” di Herbert Asbury, che documenta l’esistenza di alcuni personaggi chiave alla radice della malavita newyorkese. Al contrario, molti eventi sono immaginari, a cominciare dalla mala fama del Five Points, fino al suo bombardamento da parte delle forze dell’ordine.Questa volta la pellicola conserva, in effetti, poco del documentario: un po’ perché gioca con personaggi fortemente drammatici, nel senso di “riconducibili alla sfera d’invenzione drammaturgica”, per caratterizzazione come per dinamiche dialogiche, un po’ perché arriva più un gusto del regista per il prequel di pellicole precedenti. L’intenzione, insomma, appare spesso quella di fornire una base pseudo-storica e dispensare ammiccamenti a personaggi futuri nella diegesi ma passati nella filmografia. Niente di esecrabile, soprattutto per un artista della visione come Scorsese, che qui fa creare a Dante Ferretti e la moglie Francesca Lo Schiavo una perfetta riproduzione (negli studi di Cinecittà) dell’architettura newyorkese d’epoca; impasta il suo storico montaggio rapidissimo con musiche di Bono e Peter Gabriel (ma non The Clash, come aveva promesso loro negli anni ottanta, alla prima proposta del progetto); dà uno sguardo severo e crudo alla storia dell’immigrazione e delle rispettive repressioni da parte dell’autorità e organizza tutto (comprese le centinaia di comparse mosse su un set “su cui regnava un religioso silenzio”) su una sorta di pittoresco parco giochi per due attori straordinari come DiCaprio e Day-Lewis, che non fanno che gettare ombra l’uno sull’altro, in un gioco interpretativo continuamente a rialzo. Liam Neeson è ormai uno specialista nella parte del vecchio maestro (qui vecchio padre) che muore per la causa a inizio film. Cameron Diaz d’oro, Daniel Day-Lewis in stato di grazia, di rara perfidia, stupefacente DiCaprio, presentato a Scorsese da De Niro, che si proclama perfetto per sostituire quest’ultimo nel ruolo di attore-feticcio. Ma tutto questo non basta né agli Oscar (dove si collezionano solo nomination), né, tutto sommato, alla critica, che comincia a intravedere una strana decadenza del grande regista.Controverso è soprattutto il messaggio di questo film, così denso visivamente e per spunti drammatici, che, oltre al solito tema scorsesiano della lotta tra bene e male, sembra additare la violenza come molecola fondamentale del popolo americano (riusciamo a immaginare la quantità di polemiche da parte degli statunitensi?). La sequenza finale, poi, fa un velocissimo excursus dello skyline newyorkese, fino a far comparire e infine scomparire le Torri Gemelle. Complicato trovare un senso a tutto, che sia critico o furbamente giustapposto. Certo è che il film ha vissuto una gestazione estremamente complicata a causa dell’eccessiva lunghezza, dell’eccessiva lunghezza e di un andamento generale cruento, catastrofico e fatalista, cui il produttore Harvey Weinstein “avrebbe preferito qualcosa di simile a un ‘Via col vento’ metropolitano”, con più spazio per il cuore e meno per carne e sangue. Scorsese (che pare abbia montato il film per ben 18 volte) era molto affezionato a questa pellicola, che è e rimane bella da vedere, per quanto non faccia grandi passi avanti nel senso filmico e rimanga, qua e là, un film troppo da uomini. "The Aviator" (2004) Con Leonardo DiCaprio, Cate Blanchett, Kate Beckinsale, Adam Scott.Hollywood, anni ’40. La storia di Howard Hughes, al tempo l’uomo più ricco e potente d’America. Produttore cinematografico sciupafemmine, ma anche esperto aviatore e progettista che cambiò la storia dell’aviazione civile. Tutto condito da un talento straordinario di imprenditore, inventore, pioniere di una nuova “via americana”, da pagare in banconote di accuse di corruzione e diagnosi ossessivo-compulsive, in un ritratto che un po’ ricorda il Travis Bickle di “Taxi driver”.Scorsese, su proposta dello stesso DiCaprio, realizza la sua prima biografia vera e propria (se non si conta quella “libera” e allegorica di Jake LaMotta), con una sapienza, come al solito, unica. La ricostruzione fotografica si sposa alla perfezione con una magnitudo visiva a quote massime fatta di riprese aeree molto retrò, frenetica drammaturgia e sguardi luccicanti che ammiccano ai cinefili più attenti.Altro fatto comune quando si ha davanti agli occhi uno Scorsese, è la direzione di attori superbi. Qui DiCaprio, che da un po’ ha preso il volo dai ruoli da attor giovane, s’immagina più avanti negli anni anche se non fisicamente (così efebico è e rimane), piuttosto nell’irruenza di un carattere prismatico, difficilissimo da interpretare senza cadere nella trappola del “genio folle” o del supereroe. Niente campanilismo, ma un enorme umanesimo, reso più forte dal rapporto a mille strati tra Hughes e Katharine Hepburn, una Cate Blanchett inaudita, camaleontica, ma sempre personale. Ce la ricordiamo in “Elizabeth”? E in “I’m not there?”. Qui non imita ma rievoca, come in una lunga seduta spiritica, la celeberrima diva, offrendo un perfetto contrasto alla ricostruzione di DiCaprio, maestro d’invenzione e sguardo.Nelle mani della regia scorsesiana tutto si modella e prende forma leggiadra, sfiorando picchi da pietra miliare. 5 Oscar (su 11 nomination): Miglior attrice non protagonista, Miglior scenografia, Miglior fotografia, Migliori costumi, Miglior montaggio. Ma niente Miglior film e niente Miglior regia. Scorsese, alla Notte degli Oscar, si allontana con un sorriso. Contento per il grande successo del film e mai deluso, mai scoraggiato. L’Academy insiste con l’ostracismo. E così sia. "The Departed" (2006) Con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Mark Wahlberg, Martin Sheen, Alc Baldwin.Boston. L’intricata storia di Colin Sullivan (Damon), cresciuto come un figlio dal boss mafioso Costello (Nicholson) e diventato suo infiltrato nell’FBI e Billy Costigan (DiCaprio), ragazzaccio cacciato dall’Accademia federale, ora infiltrato nella banda di Costello. Tra i piani alti intrallazzoni dell’FBI e i piani bassi “leali” della mafia di strada, tra psicologhe sexy che saltano dal letto di un protagonista a quello dell’altro alle lezioni di vita del boss, le talpe devono scovare le talpe. E tutto si complica ulteriormente, quando arriva il sospetto che l’informatore più importante della polizia sia proprio Costello.Riprendendo in mano “Infernal affairs”, thriller del 2002 di Tommy Lau (Hong Kong), William Monahan sceneggia questa bomba a orologeria perfetta nell’impianto e, ancora una volta, nella regia.Il ritmo frenetico, i giochi di potere, i bassifondi (stavolta di Boston, ma come dire New York), i segreti, la voce fuori campo, la mafia, la polizia corrotta, la stima e la fiducia mal riposta, l’onore e la legge di droga e soldi, le lezioni di vita della “famiglia”, il sesso, la violenza (stavolta più che tollerabile, nonostante le critiche) e, prima di tutto, l’eterna lotta tra il bene e il male. Martin Scorsese è tornato quello di sempre. Con una perfezione stilistica che veste a dovere un cast degno di un premio speciale. Tutti millimetricamente in parte, con picchi su Martin Sheen e Alec Baldwin. Tutti, gli attori, millimetricamente se stessi, senza pretesa d’essere nessun altro: la formula perfetta.Stavolta, di tutte le pistole puntate nel film, una deve aver raggiunto la tempia dell’Academy, minacciandola se non avesse premiato il regista. Ecco come agli Oscar 2007 Scorsese esce di scena finalmente con ben due statuette: Miglior film e Miglior regia.Tutto sommato più un premio alla carriera, in occasione del ritorno del regista a uno stile, il suo, che ha fatto scuola.
(Sergio Lo Gatto - FondazioneItaliani.it)