k.d. lang parla di Watershed

Lo ha spiegato bene lei al “Toronto Star”: “Queste canzoni avevano bisogno di intimità e di sfarzo allo stesso tempo”. Così è, infatti. Negli undici titoli, i primi inediti pubblicati in otto anni, convivono senza darsi troppo fastidio minimalismo austero e ornamenti pop, banjo (immortalato simbolicamente nelle foto di copertina) e orchestra d’archi. Nell’intervista al quotidiano canadese k.d. spiega anche di essersi presa tutto il tempo necessario, la bellezza di sei anni, per prodursi a sua immagine e somiglianza questo nuovo disco di stampo casalingo ma ultraprofessionale, assemblato su un laptop ma poi inciso con gli accompagnatori più fidati, registrato in parte nella sua sala da pranzo o nello studio dove si ritira spesso e volentieri a rilassarsi dipingendo quadri astratti. E’ il lato buono dell’essere ormai fuori dal giro, senza pressioni o aspettative particolari, ora che l’icona dell’orgoglio lesbico ha superato lo spartiacque (il “watershed” del titolo) dei 45 anni: proprio l’età, sostiene la lang, in cui si raggiunge il picco della maturità vocale, prima che l’ugola cominci inevitabilmente a usurarsi per non essere mai più la stessa. Su questo è impossibile darle torto: canta divinamente, come e più di prima. In assoluta scioltezza e con gran varietà di sfumature, sfoderando una classe elegante e una misura che mettono in ridicolo la schiera di urlatrici/gorgheggiatrici che ci ammorbano quotidianamente dai video di Mtv. Tanto che non ha neppure bisogno di fare pre-riscaldamento: alcune interpretazioni contenute nel disco, confessa candidamente la canadese, sono take da “buona la prima”.Avrebbe dovuto essere, secondo alcune anticipazioni, l’occasione per rinverdire gli amori country degli ormai lontani esordi. Vero fino a un certo punto, anzi molto poco, perché a parte il banjo di cui sopra, qualche dobro e qualche lap steel più una canzone, “I dream of spring”, che profuma effettivamente di praterie, la lang di oggi è lontana parente della drag cowgirl in giacca a frange che a fine anni Ottanta piombava a Nashville per duettare con Brenda Lee e Loretta Lynn. Troppa acqua è passata sotto i ponti, nel percorso che va da “Constant craving” a Tony Bennett, dal grande canzoniere canadese (i Neil Young, i Leonard Cohen e le Joni Mitchell rivisitati nell’ispirato “Hymns of the 49th parallel” di quattro anni fa) alla pratica buddista che orienta oggi il suo pensiero e la sua scrittura. Che “Watershed” esca per un’etichetta come la Nonesuch è già un indizio: questa è musica “adult contemporary”, se proprio vogliamo appiccicarle una vaga etichetta. Che vive, come tutti i dischi dei canadesi (anche quelli espatriati), di grandi introspezioni e grandi spazi (“endless blue above me/endless blue beneath”, canta k.d. in “Je fais la planche”), di incanti e sospensioni temporali, di nostalgiche rievocazioni del passato (il basso alla Drifters di “Coming home”, quello jazz di “Sunday”, un’eterea nuvola di fisarmonica, vibrafono e organo che sa di musica anni Sessanta proiettata nell’infinito). Musica acustica e discreta, autunnale e ovattata (“Thread”), onirica e da ascoltare a occhi chiusi (“Close your eyes”, appunto), spesso con una punta di elettronica tenuta sotto traccia, un ritmo cardiaco lento e costante scandito dalle percussioni. A volte vicina ad Annie Lennox (le aperture melodiche della pop song “Flame of the uninspired”), altre alla Joni della maturità: Upstream” e “Shadow and the frame” hanno quel piglio austero e un po’ altero, quel ritmo sincopato, quella perfezione geometrica dei disegni sul pentagramma, mentre solo nel finale (“Jealous dog”) k.d. si concede un momento ludico e spensierato, una cantilena da portico angelica e sognante.
Alberto Coultier