Maggio ’68, e Patty Pravo diventò diva del pop

È una che buca al primo passaggio, e fa tombola al primo giro. Autunno sott’acqua del ’66, novembre. La domenica sera, sul Nazionale, va in onda una Canzonissima stracca, che neanche si chiama così, giacché da quattr’anni basta quel nome, scandalosamente congiunto a Dario Fo e signora, a far impallidire i ligi dirigenti Rai. Ci vorrà il Sessantotto, per ripescare l’insegna festosa, e intanto c’è Scala reale, arbitro di gara l’ultrasessantenne Peppino/Pappagone, che malversa lo Stivale con «ecchequà» e che con la marea montante del giovanilismo non ci sta proprio. Né ci sta l’ancor coriaceo Reuccio dal «cuore zingaro», che vince su un Gianni Morandi alle stelle (i fischi verranno...) ugolando tenorile il suo addio a Granada. Da una Londra dondolante che è il già mitico altrove degli under 18, dove Antonioni gira Blow Up e ci infila gli Yardbirds, sciama la British invasion, antesignani i Beatles e gli Stones, e da Soho e da Chelsea arriva quell’eversivo Sixties fashion di cui Mary Quant è l’alta sacerdotessa. Da un’America ingolfata nel Tonchino, si levano le cantilenanti proteste di Bob Dylan e Joan Baez, e da off-Broadway sta per dilagare il sogno hippy di Hair, appeso in cielo alla palingenetica era dell’Acquario. Qui, contentarsi del beat zazzeruto all’italica, di riporto e di scimmiottatura (o delle covers, che suona meglio): si orecchia il nuovo sound anglosassone, si traduce e si banalizza (ma non sempre), basta schitarrare un testo scemotto (antagonismo generazional-pacifista) et voilà!, si diventa qualcuno, fortunatamente per poco. Lei no. Per il debutto, la puntata del 12, tutto è furbesco, da stampa istantanea nella memoria del teleutente impigrito dalla digestione. Lo smoking anticonvenzionale attribuito a un Yves Saint Laurent già maestro della couture. Una canzonetta ammiccante al disagio degli adolescenti, con la luna sì, ma in procinto, intruppati, di prendersi il mondo. Un nome breve, strano, facile facile, con un tocco di ambiguità promettente che le calza a pennello. Il resto, la bella biondina occhi verdi, ce l’ha di suo: una voce un po’ torbida che non piace alle mamme, ma in compenso induce ai cattivi pensieri anche tanti papà, un visetto da disinvolta mocciosa che aggiorna, archiviandola, un’altra bionda, inquietante, epocale silhouette, la Lolita/Sue Lyon – lecca-lecca e occhiali a cuore –, che rovina il senile arrapato James Mason. A Scala reale – evidentemente un cult del benpensantismo tricolore – finisce sotto tutti: rastrella comunque (secondo gli studiosi, s’intende) 7.186 cartoline, giusto a un’incollatura da Ricky Shayne, un rocker più che un mod – a dirla precisa –, e comunque un fighetto in bomber già noto, amatissimo dalle sgallettate, tipo giostraio levantino che non a caso va a manetta sulle piste all’autoscontro. Ma Ragazzo triste è un 45 col vento in coda: l’autore è Sonny Bono, quello che con l’esotica Cher sta facendo sfracelli, il riciclatore è Gianni Boncompagni, quello che detta la linea, con Renzo Arbore, dai microfoni di Bandiera gialla. E poi è un disco rosso delle Piper Series, un’etichetta magica, anche nella provincia addormentata dove non succede mai nulla: a Roma, in una certa via Tagliamento (la combinazione!), impazza un nuovo club (altro che night vecchieggiante!) dove si suona, si balla, si beatteggia all’inglese, dove l’Urbe che conta si raduna e fa moda. Super-trendy (ma il barbarismo è seriore). Lei, la Ragazza del Piper che soffia il titolo a Caterina Caselli/Casco d’Oro/Oddio..., gioca alla slot machine della vita e piove oro. Olé!La Patty Pravo che annota due ricorrenze di primavera: il 60º dalla nascita e il 40º dalla Bambola, la sua rumba identitaria incisa controvoglia, precedenti offerte alla stessa Caselli e a Gigliola Cinquetti, e persino ai Rokes e a Little Tony, l’hit universale da «trenta milioni di copie a oggi» esploso nel maggio del ’68, memorabile attacco di chitarra e memorabile lei, pupetta ventenne da schianto... Ecco questa Patty Pravo non sarà la grande artista che lei pensa di essere, non avrà la grande voce che lei pensa di avere (vai a Bla, bla, bla..., l’autobiografia rilasciata per Mondadori, in vista del tondo compleanno, a un parecchio compiacente Massimo Cotto), ma è senza dubbio, nell’Italia leggera di quattro decadi fa, un’apparizione altamente shocking. Un’immagine forte – in quell’Italia d’ancor pochi pensieri che canta e balla al giradischi melodia nazional-popolare, scherzetti balneari da boom, geghegè del tubo e zingarate beat –, destinata a non farsi travolgere dal Sessantotto azzeratore, dall’import aggressivo, dal cantautorato dissonante già in voga (ma neanche a Genova o a StraMilano le imbroccano tutte, e non tutti sono Fabrizio De André) che nel decennio seguente – dei diritti, delle lotte, del piombo – prenderà o la via individualista del pop banal-sublime alla Battisti & Mogol o la via collettiva dell’impegno politicamente orientato, a muso più o meno duro. Le va alla grande, finché le va, alla signorina (ma presto pluridivorziata signora) Nicoletta Strambelli da Venezia, giunta a Roma (naturalmente da Londra – dice lei..., ecché? da Mestre?) in cerca di Piper, sul calco on the road che lo spirito motorio del tempo impone ai più inquieti (o ai ferri più storti, dipende dai punti di vista), e comunque ai meno noiosamente secchioni. Certo sarà «una botta di culo» – come riferiscono gli esperti citandone – di lei, appunto – un’espressione ex post –, certo sarà (tanto per parlare un po’ meglio) il solito Zeitgeist, ma sicuro sicuro è che – sempre lei a dire – è «diversa dagli altri». Sennò, non riuscirebbe! Così diversa, la monella avventurosa, che da proto-cubista in quel di via Tagliamento (oh!, la fissa, in provincia, chiaro) scatta a divetta di “per-voi/noi-giovani”, con due canzoncine beat di quelle che (e mica cavolate!) «stanno per cambiare il mondo», e – in un lampo accecante – schizza a diva/divissima: non la superna Mina – si capisce –, e però, qui in casa, sul podio con le gran dame, metti la Milva, l’Ornella. Così diversa – tra tutte le mezzecalzette a spasso nello show-biz (ma allora non si dice così), anche racchie, magari – che la bellina diventa bella/bellissima, un incanto guardarla, che a tutti quelli che il ’68 lo vivono (da collettivisti o da battitori liberi: la differenza non mette qui conto), be’, a tutti quelli gli piace assaissimo: ai ragazzi, attizzati dalla Patty che esterna «la verginità è un inutile ingombro», alle ragazze, prese lì ad acchittarsi alla Patty, stivaloni, cinturoni, boccoloni, occhioni. (E magari a rompersi – gli uni e le altre –, sedere di pietra e senza web!, su Platone e sul suo incasinatissimo Crizia/ecchissenefrega!) Fortuna che – per entrambi i generi – c’è Paiper, il consolatorio cilindretto dell’Algida, «il gelato del mondo nuovo» (e ridài!), che la spavalda playgirl carosella radiosa. Un fenomeno. Wow!Rivoluzionaria, la Patty? Boh! Un modello per femministe incagnate? Figurarsi! Piuttosto una che la va «senza freni», «oggi qui, domani là» – i suoi versetti prima maniera forse meno mendaci –: da spericolata, insomma, da esibizionista di quel libero-comportamentismo che la nascente antropologia sessantottina scipperà alle élites consegnandolo gioiosamente alle masse, altresì risparmiando purtroppo, alle generazioni venture, esilaranti carteggi stampa del tipo Mina ragazza madre/padre Rotondi redentore. Vuoi che – come afferma con giudizio oggi – lei fa «la musicista, non i comizi» (ma trent’anni fa, al tempo del rapimento Moro, ci fu una Miss Italia anti-Dc, prudentemente espulsa dall’album, che Gianni Borgna descrive qual «sequenza sgangherata di insulti»)... Vuoi che, e forse soprattutto, lei se ne infischia, dentro com’è in una bolla rigonfia di delirio e di soldi... Fatto si è che, in quattro e quattr’otto, gira sui tacchi di 180 (gradi), e attacca una serie mélo, quando non maschilista o da donna-oggetto tout court, che con il codice contestatario ci sta tutta all’inverso. Voce meno grezza, timbro basso ingolato in audaci ascensioni (stecche eventuali ripulite su disco), infelicissimi amori di un’amante perdente, anche piagnoni à la française, e sì che la stessa grandissima Mina in registro recitante è lì lì, sul ciglio periglioso della pallosità. Artificio mimetico neppur tanto suasivo? Fa niente, successo stellare! Ed ecco la bambola ancor groupie style ma già milionaria (e però che groupie!, ragazzi, con quel mini bianco di raso, i riccioli solari, il visino pensoso: altro che Marianne Faithfull e Anita Pallenberg, e anche meglio di Pattie Boyd!), eccola che diventa una giovin chanteuse/charmeuse elegante, un’infilata di abiti che fanno scintille, i lunghi da neo-signora, le tutine da androgina sexy, le crocchie da principessa, le linci e le volpi da arricchita glamourous. E sì, uno spettacolo! Un’ostentazione divistica. Una giostra dell’apparenza. Canta, l’ex piperina che «i ragazzi se li fuma come sigarette», la fidanzata volubile che ci dà «un taglio netto», la moglie per poco e magari per gioco, quella che un giorno – a starla a sentire – arriva in Campidoglio così, tanto per fare, e si sposa impellicciata il suo antiquario romano (altri mariti/boy-friends del giro: batteristi, chitarristi, bassisti eccetera) soltanto perché ci sono lì, accorsi a rotta di collo, i soliti giornalisti sgomitanti/adoranti... Canta dunque, la Patty, di una donna che se perde lui che sarà mai di lei, che se c’è l’amore le spunta la lacrima, che per lui morirebbe, che a lui come-fosse-il-primo rinverginata si offre, che lui lo aspetta a casa (!) mentre parte battagliero per Tripoli non si sa a far cosa (la guerra a Gheddafi?), che a lui glaciale gli fa un baffo quando lei fervorosa ritorna, che lui la fa stare a sbaruffarsi all’inferno, e lei lì, a promettergli le delizie del paradiso, che lui le pianta la spada nel cuore, e lei lì, uno stuoino, pazza di gelosia a sognarlo, anche tra le braccia del cretino di turno. Canzoni da bella con l’anima. O no?Neppur tanto anti-borghese, poi, la Patty... In anni in cui, se borghese, lì intorno al ’68, incassi almeno qualche cachinno. Neppur tanto: a parte la fuga da Venezia, il ribellismo anti-matusa, la deregulation sessuale. E non solo, poco anti-borghese, per l’immagine da sontuosa jet-setter, ma anche perché, da un certo punto in avanti, prende forma un leggendario racconto delle origini dove vai tu a distinguere il vero dal falso. Un pedigree da figlia di «buona famiglia», con studi di danza e di pianoforte, con frequenza all’aulico Benedetto Marcello non si sa come conclusa. Una tradizione che la Patty sessantenne – singolarmente cresciuta in laguna dai nonni, con padre, madre, fratelli tutti lì, a Mestre – ora rifinisce e definisce ufficialmente consegnandola nero su bianco. E magari dimenticandosi che la formidabile rassegna stampa del suo sito Internet include un certo pezzo di un cronista puntuto spintosi, in quel tempo là dell’esordio, nella «casetta modesta» di Mestre, nelle «tre stanze» veneziane della nonna, sola a rimpiangere la nipote sparita con «quei saltimbanchi». (Naturale: non che l’una e le altre, la casetta e le tre stanze, non siano da «buona famiglia», anzi: magari lo sono più di ville e palazzi, solo che il concetto, in sé conformista, rimanda a un censo diverso.) Dunque – racconta –, infanzia con tate, vacanze al mare e ai monti, viaggi in Costa Azzurra a sentire Édith Piaf, e incontri di straordinario riguardo: il patriarca Roncalli, sempre lui!, futuro Giovanni Vigesimo Terzo, ma anche Cesco Baseggio e Toti Dal Monte, tutti ospiti abituali nel salotto «di nonna», e i compiti scolastici a Ca’ Venier dei Leoni, leggi da Peggy Guggenheim, e i gelati ogni giorno con il vegliardo Ezra Pound... La solfa. Uffa!Afferma: «Il Sessantotto praticamente l’ho scoperto tanti anni dopo», da happy few internazionale nomade di trionfo in trionfo. Conviene: «Erano anni assurdi, tutto quello che facevo finiva sui giornali». Già, una paranoia rotocalchistica. Un diluvio di strambate a mezzo intervista. Un abbaglio di lussi, una gragnola di gossip. Con un servilismo mediatico dell’iperbole (la semidea, la dea, la divina, l’ultima diva, l’aliena, l’algida, l’astrale...) che esonda (per inerzia mentale?) fin dentro il terzo millennio. La Patty che va oltre Atlantico (oh!), dove vogliono farne un’american star – dice lei che rifiuta, ovvio –, allo Space Center di Houston (oh!-oh!), dove stanno lì quasi al countdown per la Luna (oh!-oh!-oh!)... O la Patty che va in Francia, «ravissante italienne» (sempre propri, i cugini d’Oltralpe), addirittura vedette in tv del San Silvestro ’70 (oh!, Bravo Pravo!, recte: Bravò Pravò!)... O – capitoletto piuttosto curioso – la Patty «attrice nata», per anni sul punto di un debutto convenientemente clamoroso, che i fans della prim’ora stanno a tutt’oggi aspettando. La Patty che la vuole De Sica per l’enigmatica Micol Finzi-Contini (e fisicamente ci sta), la Patty che la vuole Cottafavi per la replicante Andromeda (e fisicamente ci ristà), la Patty che – aggiunge lei oggi, ma: o i soliti giornalisti presero buco o a bucare fu il radar del fan – la vogliono persino Antonioni per il balordo Jack Nicholson e Fellini per il cavalier Casanova (un concittadino, tra l’altro). Che non sappia recitare proprio – con quel suo magnetismo speciale, con quelle mani fatate tanto ben mosse, con la cometa fulgente e il sorriso smagliante, e la grazia, l’armonia, la fotogenia eccetera – il fan affatturato non ci crede neanche se lo vede: no, certo, il tal provino va «benissimo», ma è la Patty che è troppo giramondo, la Patty che è troppo pigra per levarsi nottetempo e andare sul set, la Patty che intende «recitare», e non stare lì, in tv con Cottafavi, a fare la statua siderale e silente, la cyber-girl uscita dal computer modello E.T. del bravo, rimpianto Luigi Vannucchi. Giusto: glielo dicono, a lei, anche Tino Carraro e Rina Morelli... Sì, buonanotte!Succede. A fine Settanta, la ruota della fortuna, fin lì girata come un ventilatore, rallenta, scarta, si pianta. Quella di Pensiero stupendo, in sottotraccia canzona (nessun refuso, ndr) un po’ mascalzona (altra classe E io tra di voi di Mina/Aznavour), penultimo motivo da hit parade prima della Patty Renaissance (un guizzo, meglio) nel nome di Vasco-Forever a Sanremo, vent’anni dopo..., ecco quella che canta il testo allusivo di Fossati, bella musica di Oscar Prudente, è una Pravo già sopra le righe, bad girl che scarroccia sul fetish, che piace ancora, sì, ma piacerà sempre meno: stralunata in viso, increstata in testa, sciroccata nelle movenze. Una Pravo che fa l’avanguardia, con tutte quelle cose là, il funky, l’heavy metal, la new wave, e le arie rarefatte e i motivi che non canta nessuno, che non segnano più le stagioni di noi altri gente comune. Una Pravo tipo “sesso, droga e rock and roll” che va in America, West Coast, a cogliere sonorità stravaganti, e intanto escono in Italia foto porno di cui i maschi parlano ancora, che torna e arrotola una lingua esoterica, osticissima al fan di modesta esperienza mondana, che canta solo canzoni d’autore (ma quante sòle!, anche dai più celebrati, tornassero Migliacci, Bardotti, Conte, Mogol anche senza Battisti...), che interpreta roco e bassino, poco scandito, magari svociato e stonato (e a noi che ci piacciono le impervie scalate d’antan!), che floppa sul palco dell’Ariston, anche mascherata da geisha secondo il genio di Gianni Versace. Peggio: che finisce a Rebibbia: per qualche canna (dice lei), per eroina (i soliti giornalisti). Una Patty tipo “notti, guai e libertà”, che spreca quel suo certo talento, che imbruttisce, capperi!, ma poi rimbellisce, che in Cina la adorano, però, che alla fine c’avrà anche qualche canzone stylé, ma che non ha più il magic touch. Vabbè. Non c’è storia!Càpita a tutti. Ai belli, ai ricchi, ai famosi (per non parlare degli altri). Càpita che la storia sia/sembri alle spalle. Pare così anche per la Patty, oggi che è... come dire?, «anagraficamente svantaggiata, o diversamente giovane», oggi che – a sentire chi sta sul mercato – ha un gradimento di nicchia e di genere (omo, e pure in su con l’età). Poi, però, c’è il misterioso popolo di YouTube – la mirabilis machina! –, che glossa inesausto e ti scombina i pensieri, che riscrive sulla rete, rinviandolo all’infinito – in un digital-esperanto in cui x equivale a per e kn a con –, il favoloso racconto ormai quasi stinto anche per quelli del Sessantotto. È l’estetica del frammento, su video vintage e no. «Che sventola!!!», «Mitica!!!», «Immensa!!!», «Assolutamente stupenda!», «Semplicemente fantastica!»... «Patty, you’are my life!», «Unique! Un talent fou, une beauté rare», «Muy grande y maravillosa»... Ma non manca l’internauta del dissenso, che almeno sul recente, arabeggiante omaggio a Dalida invoca, a ragione, «Pitié!»... A parte il bastian contrario radicale, naturalmente isolato, quello che attacca: «O bischeri!!!».
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